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Ferri e veleni: il prezzo del nostro sviluppo

Creato il 12 marzo 2012 da Idispacci @IDispacci

Ferri e veleni: il prezzo del nostro sviluppo

Non tutti sanno che la principale fonte di inquinamento nel mondo (eccezion fatta per il pur importantissimo inquinamento atmosferico) è costituita dall’attività mineraria, e da tutti gli sprechi ad essa connessi. Per “attività mineraria”, qui consideriamo essenzialmente quella legata all’estrazione di metalli. Dunque non vengono prese in considerazione i pozzi petroliferi, le miniere di carbone o di diamanti, le cave di pietre rare.

L’attività mineraria così intesa, produce da sola oltre il 50% dell’inquinamento dei terreni, delle falde acquifere, del sottosuolo. L’attività mineraria, inoltre, è la principale causa a monte dell’estinzione di decine di specie animali e vegetali. Vediamo brevemente il perché.

Per cominciare, alcuni cenni storici sull’estrazione del rame, che prenderemo ad esempio tra i minerali di questo genere.

In antichità, il rame poteva essere trovato puro in natura, in quantitativi limitati agli occhi di noi moderni, ma più che sufficienti per società alle prime armi con la metallurgia. Bisognava spesso scavare a fondo, con le mani o con altri strumenti manuali, per poter

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raccogliere pepite di rame del peso di pochi grammi (o, al massimo, poche decine di grammi). In quel caso, tuttavia, il dissesto ambientale causato da tale operazione era praticamente nullo.

Ormai, la nostra moderna società industriale non può certo alimentarsi con simili ritmi di estrazione. Il rame sotto forma di cristalli (il cosiddetto “rame nativo”) è ormai rarissimo in natura, per cui l’unica alternativa è quella di estrarlo da terreni che ne hanno quantità limitate. Per fare ciò, vista la scarsa concentrazione del minerale, i padroni delle miniere operano scavi a cielo aperto di vastissime dimensioni. Se non lo facessero, la loro impresa non guadagnerebbe abbastanza e fallirebbe rapidamente.

Vengono quindi scavati decine di ettari di terreno, dopo aver rimosso (potremmo dire “sterminato”) l’intera vegetazione e averne scacciato la fauna. A questo punto, gli scavi si protraggono per un certo numero di anni, seguendo questo criterio: la terra ricca di minerali viene scavata e asportata, e depositata in enormi mucchi, separati dal terreno sottostante da teli di plastica dello spessore di un millimetro o anche meno. Una volta messi assieme mucchi di terra del peso di alcune tonnellate, vi si spruzza sopra una soluzione solvente, che separa i cristalli di rame dalla terra. A quel punto si estraggono materialmente questi cristalli dalle pozze di liquido solvente scivolato tra le zolle di terra.

Questa operazione di estrazione è probabilmente una delle più inquinanti mai ideate dall’Uomo. Anzitutto, il liquido solvente è spesso composto da acido solforico o cianuro (per alcune operazioni è usata l’ammoniaca), e spesso filtra attraverso i sottili teli di plastica posti sotto le pile di terra da lavorare, poiché essi si possono lacerare a causa del peso della terra o a causa di operazioni brusche o ancora a causa di errori umani. Inoltre, il materiale di scarto di tale lavorazione è una sorta di fanghiglia intrisa di acido solforico o di veleni, in grado dunque di uccidere la gran parte delle forme di vita conosciute. Infine, la quantità di questo materiale di scarto è davvero impressionante. Si tratta di un rapporto di 400 a 1 tra materiale di scarto e minerale estratto nel caso del rame. Nel caso dell’oro si arriva alla cifra iperbolica di un rapporto di 5.000.000 a 1. In parole povere, ciò vuol dire che per ogni grammo di oro estratto vi sono, in media, cinque tonnellate di materiale di scarto altamente tossico.

Facciamo un esempio pratico. Nei telefoni cellulari che usiamo, sono presenti piccole quantità di rame. All’incirca quindici-venti grammi. Ebbene, ciò vuol dire che per estrarre il rame necessario alla costruzione di un cellulare, vengono prodotti fino a otto chili di materiali di scarto.

Per l’oro il discorso diventa ancora più inverosimile: per una fede d’oro vengono estratte dieci-quindici tonnellate di materiale intriso di cianuro (o di acido solforico), estremamente dannoso per l’ambiente.

Al contrario di quanto avviene per l’oro o per altri metalli nobili, il rame ha conosciuto solo in tempi recenti adeguati apparati di riciclaggio. Anche perché l’attenzione del pubblico e dei politici nei confronti di questo problema è assai scarsa. Per citare un esempio, quando in Italia venne aperto il primo centro di riciclaggio specializzato nello smembrare e riciclare gli elettrodomestici, il primo anno vennero raccolti (e in gran parte riciclati) 10.000 frigoriferi, un numero ancora più alto di televisori (cifre comunque modeste se posti in relazione con l’effettivo numero di elettrodomestici di quel tipo buttati ogni anno dagli italiani), ma solo mille telefoni cellulari, i più ricchi di rame in proporzione al proprio peso.

Si potrebbe facilmente obiettare che in fondo l’Italia è una nazione poco attenta allo smaltimento dei rifiuti, e decisamente arretrata nel riciclaggio (il problema di Napoli, per certi versi, è solo la punta dell’iceberg), ma si tratta di problemi che affliggono praticamente tutti i paesi industrializzati, e anche all’interno dell’UE la situazione di diversi paesi è peggiore della nostra.

A questo punto, vale la pena sottolineare la responsabilità effettiva di numerosi imprenditori minerari nel creare disastri ambientali. E vediamo qual’è stata la risposta dei governi a tali problemi.

Prendiamo come esempio gli USA. Essendo una nazione puramente liberista, sotto il profilo economico, i governi centrali degli Stati Uniti si sono sempre dimostrati titubanti nel porre regolamentazioni anche solo vagamente stataliste. In moltissimi stati americani, infatti, fino alla fine degli anni ’90 vi era la legge nota come legge dell’accertamento. In parole povere, un impresa mineraria si doveva fare carico, una volta conclusi i lavori in una zona, dei costi di bonifica del territorio, che erano poi svolti da compagnie legate allo stato o da esso appaltate. Ma era la stessa ditta mineraria a stabilire l’entità dei costi di bonifica, a propria totale discrezione e senza alcun controllo da parte di organi statali sulla veridicità della somma.

In moltissimi casi, grazie a questa legge, l’impresa mineraria pagava cifre apparentemente consistenti (spesso oltre i quindici-venti milioni di dollari totali), che però si rivelavano puntualmente insufficienti. Era poi lo stato a dover colmare quelle lacune, e si trattava e si tratta di cifre impressionanti: in numerosi siti del Montana o dell’Arizona si parla di cento milioni di dollari ogni anno per dieci o quindici anni (a volte anche per venticinque). Di

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fronte ad una tale spesa molti governi federali gettano la spugna prima che la bonifica sia completata.

Altri stati demandano tutti gli oneri alle imprese minerarie, che però per risparmiare si comportano da criminali combinando veri disastri: la fauna ittica degli affluenti del Mississippi venne ridotta del 90% quando, negli anni ’80, un’impresa mineraria “smaltì” dei bidoni pieni di rifiuti intrisi di cianuro gettandoli nei corsi d’acqua.

Altri stati americani, come la California, adesso attuano regole più severe: i costi di bonifica sono decisi da un’equipe di esperti provenienti dalle organizzazioni statali, dalle aziende, e dalle associazioni ambientaliste.

Spesso, comunque, capitalisti e politici si trovano d’accordo nel cercare soluzioni economiche, che quasi sempre risultano insufficienti. Inoltre, ancora una volta, gli imprenditori trovano una scorciatoia: possono dichiarare bancarotta quando la società smette di avere bilanci in attivo. In questi casi, e non sono pochi, l’intero costo della bonifica passa allo stato.

Il “Protocollo di Kyoto”, nel 1997, mise in luce il problema ambientale legato all’attività mineraria. Ma il testo del trattato riguarda soprattutto l’emissione di gas serra nell’atmosfera, trascurando altre fonti di inquinamento. Inoltre, le nazioni e i governi, molto propensi a spendere cifre astronomiche in armamenti, sono molto riluttanti a stanziare fondi per il risanamento ambientale. Sebbene quasi tutti i paesi del mondo (a parte Somalia e Afghanistan) hanno firmato il trattato (pur con ritardi a causa delle titubanze della Russia), gli USA si sono rifiutati di ratificarlo.

Sebbene gli Stati Uniti siano la patria del liberismo “totale”, molte nazioni devono affrontare problemi simili, se non peggiori. La volontà di attuare rapidamente un’industrializzazione del paese creò analoghi problemi in Cina, negli anni ’60. Ma si parla di un periodo in cui queste preoccupazioni interessavano ben pochi politici. Adesso, seppur nel caos di una transizione tra economia pianificata, produzione di massa, e proto-capitalismo, la Cina sta lentamente acquisendo consapevolezza ambientale, e da alcuni anni ha iniziato a legiferare in tal senso. Vale la pena ricordare che la Cina, al contrario degli USA, ha ratificato il protocollo di Kyoto, e negli ultimi anni sta conoscendo un “risveglio ambientalista” sincero, dopo che disastri ecologici causati dalle scelte del governo si sono ritorte contro gli stessi cinesi.

Non dobbiamo poi fidarci delle apparenze: le socialdemocrazie nordeuropee solo ultimamente hanno agito per ridurre gli sprechi. In preda alla psicosi da guerra fredda, e a causa di continue corse agli armamenti, anche la Germania Occidentale sfruttò le miniere della Rhur dando poco peso all’impatto ambientale delle proprie scelte.

Norvegia e Svezia iniziarono a prendere provvedimenti solo dopo aver avvelenato numerosi fiumi e laghi. Ovviamente non furono i problemi ambientali,bensì quelli ad essi connessi a far cambiare rotta a queste nazioni. Infatti lo sterminio della fauna ittica minava una delle maggiori attività produttive di quei paesi: la pesca.

La Francia, nostro vicino ispiratore, nel bene e nel male, ha sofferto in maniera minore questi problemi solo per il fatto di possedere poche risorse minerarie. Un discorso simile si può fare per l’Inghilterra, ricca di carbone (che viene estratto senza arrecare eccessivi danni all’ambiente), ma povera di metalli rari o nobili.

È scoraggiante costatare quanto l’opinione pubblica sia poco informata riguardo a questi problemi, e quanto sia scarso l’interesse dei politici nel risolverli.

Tuttavia, cambiando il nostro modo di intendere “la miniera”, chiedendo maggiori garanzie da parte degli imprenditori, riducendo anche quotidianamente i nostri sprechi e affidandoci al riciclaggio, possiamo pensare realisticamente di ridurre il nostro impatto sulla natura, e rallentare la strage di specie viventi che stiamo perpetrando.

Valerio Cianfrocca


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