Firenze – Palazzo Vecchio
Così ha principio il Corso appena l’ orologio di Palazzo Vecchio suona le tre pomeridiane. Vero è che l’orologio di Palazzo Vecchio suona quando gli pare, e qualche volta si ferma sulle due e non c’è verso di fargli muovere un passo più innanzi né colle buone né colle cattive. Il massimo orologio fiorentino, che è un miracolo di meccanica da fare impallidire tutta Ginevra, va soggetto ogni tantino a certi capriccetti originali che m’ han fatto sempre credere ch’ ei sia piuttosto una persona che una cosa. Nel quarantotto, quando il Sommo Pontefice, allora sempre soggetto a sbagliare, aveva indovinato per bene le aspirazioni dei popoli, e quando per conseguenza era lecito ad un orologio liberale e progressista di bazzicare per le chiese e d’avere amicizia co’ preti, questo nostro regolatore pigliava l’ imbeccata dai canonici del Duomo, e suonava mezzogiorno solamente quando monsignore Arcivescovo era pronto per la messa cantata.
A tempo del popolo-re (tempo perso…. in verità!…) ei s’ era messo a correre con quelle lancettaccie demagoghe come se non avesse dovuto fermarsi mai più, spinto dalla smania d’ andare avanti, nella quale occasione fu provato che il progresso, nella materiale accettazione della parola, non è roba fatta per gli orologi. Il bello fu che il buon popolo toscano, ingannato da quelle indicazioni bugiarde, non seppe mai con precisione che ore potevano essere al quadrante d’Italia, sbagliò il tempo del correre con quello del fermarsi, imbrogliò il crepuscolo del mattino della libertà con quello della sera della licenza…. e si trovò in pericolo di cominciare, quando tutti gli altri finivano. Più tardi, nei bei giorni della Restaurazione, tutte le mattine mutava l’ ora del mezzodì a beneplacito del ministro Landucci che non aveva mai coraggio d’ andare a desinare per paura di spender troppo…. Un’ altra volta gli venne il ghiribizzo di perdere le tre, talché il sole non sapeva più che pesci si prendere e l’ abbaco si trovò derubato d’una cifra…. Più tardi ancora cominciò a fermarsi il venerdì sera al tramonto e per tutta la giornata del sabato dava festa agl’ingranaggi…. e quella fu 1′ epoca, in cui per la prima volta entrarono gli ebrei al Municipio.
Oggi s’ è messo, come chi dicesse, colle lancette al muro, e non c’è Cristi di persuaderlo a segnar l’ore pari nello stesso modo delle dispari. Sarà un capriccio. ma è così!…
Fortunatamente il Corso comincia alle tre pomeridiane…. un’ ora dispari…. e l’ orologio la segna, su per giù, con una certa precisione. Le carrozze sfilano lentamente, sonnolentemente , dondolandosi sulle molle, e facendo sentire alle volte un cigolìo, uno scricchiolìo lamentoso come per dire: Dio!… che noia!…. Infatti sarà sempre un problema per l’umanità il sapere se il Corso sia stato inventato pel passatempo di quelli che vanno in carrozza, o per divertimento di quelli che camminano a piedi.
Intanto è certo che chi va al Corso in carrozza ha sempre una cera annuvolata, musona, dispettosa, come se piegando la testa a una triste necessità provasse almeno il bisogno di protestare colla fisonomia….
Ma ecco…. tutto ad un tratto il sole sparisce, il cielo si cuopre, si leva un venticello di malaugurio,
i nuvoloni bigi e neri si accavallano sull’orizzonte, la primavera bugiarda cede il posto all’inverno più veritiero, e comincia a venir giù una pioggiolina fitta fitta, un pulviscolo d’ acqua che penetra attraverso i soprabiti e gli scialli, che riduce a spugna le coperte, che stinge i veli e allucignola i pennacchi.
In un attimo la strada è imbrattata da uno strato di fango che schizza sotto centomila piedi frettolosi, e costituisce un getto di sotto in su assai meno incomodo, ma molto più spiritoso di quello che si fa di sopra in giù.
Le carrozze particolari spulezzano via ratte ratte, infilando tutte le cantonate ; i carri si rifugiano sotto qualche vòlta o dentro a qualche portone, e rimangono in corso solamente i legni di piazza scelti con diligente cura fra quelli che non hanno nulla da perdere e poco da guadagnare, armadi, cassettoni, ceste da panni sudici, montati alla meglio su quattro ruote barcollanti e tirati da una pecora tosata. Pochissimi servitori in livrea e molti vetturini col soprabito rovesciato e col cappello sbertucciato dalle fitte e dalle ingozzature de’ veglioni d’un anno fa.
Nelle carrozze pochi signori e molti beceri, i primi imitanti i secondi con una perfezione da giustificare qualunque equivoco. Per aria nuvoli di gesso in polvere, nembi di rena mescolata a pallottole di fango, grandine di coriandoli, farina gialla, cinabrese, qualche arancia, molti fagiuoli, una dozzina di patate, ed altri commestibili.
Le carrozze vanno battagliando colle finestre e coi terrazzi gremiti di spettatori. Una volta battagliavano a colpi di confetti o di fagiuoli; oggi il progresso ha messo di moda i coriandoli, che hanno il vantaggio di sporcare gli abiti, i volti, e le mani.
Dopo mezz’ ora di passeggiata una signora pare un fagotto di panni sudici, e un gentiluomo somiglia uno spazzaturaio. Pure quelle rapide avvisaglie, quel getto da lontano, mettono un po’ di brio, un po’ di vita, richiedono una certa destrezza nell’attacco e nella difesa.
Grida, urli, risate, interiezioni, complimenti e improperii. Vocabolario speciale ridotto alla semplice emissione del fiato modulato alla meglio in una delle cinque vocali, o in uno de’ tre dittonghi. Nessuno ride. Firenze si diverte!…
( Ferrigni Pietro F.L.C., Su e giù per Firenze, 1881 )
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