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Fertilizzante

Creato il 16 settembre 2014 da Idispacci @IDispacci

Fertilizzante

Era domenica mattina, ed avrei preferito dormire. Ma c'era chi doveva imparare a dimenare l'ombelico, dimostrando sensibilità ed estro creativo: quelle del corso di danza del ventre.
La palestra nella quale tenevano le lezioni aveva un muro in comune con la specie di corridoio che mi faceva da casa.
Certo, per me, disoccupato senza grandi prospettive, la domenica non era un giorno così speciale, ma lo era per il resto della gente: normale che il sabato sera capitasse di far tardi.
Non me la passavo bene, ero in guerra col mondo, diverse spade di Damocle erano pronte a cadermi sulla testa.
Mi alzai, rimanendo in uno stato catatonico per diversi minuti. Quando riuscii a controllare l'ora sul telefono, vidi che erano appena le dieci. Quei maledetti sonagli scandivano il ritmo di ogni pezzo seguendo il tempo di bassi e percussioni. Quando tutto va in merda, vorresti solo un po' di quiete, dormire la mattina, leggere un libro, guardare un film... niente da fare, non mi toccava neanche quello, e tra tutti i tranelli della vita, la mancanza di tranquillità era la cosa che sopportavo di meno.
Afferrai una maglietta, indossandola mi accorsi che le mie ascelle non erano in perfetto stato. Decisi che dovevo porre rimedio. Mi lavai i denti, misi dei bermuda, presi la tracolla e calzai delle infradito. Fatto questo uscii di casa diretto verso il supermercato. Parcheggiate, vidi le vetture delle frequentatrici del corso, avevo imparato a riconoscerle: tutte le volte che si riunivano la via sembrava un'esposizione di nuove mini, Lancia Y e nuove 500.
A metà strada mi ricordai delle ascelle, mi detti un'annusata timidamente speranzoso: l'illusione che il mio corpo fosse provvisto di un sistema di igiene personale automatico svanì in un attimo, accettai la situazione e mi promisi che mi sarei lavato non appena fossi rincasato.

Il grande supermarket era pieno di vacanzieri. Mi infastidiva il fatto che non avessero preferito restare a letto fino a tardi, tipo le undici e mezzo. Presi di nuovo il telefono, oracolo dei tempi moderni, lessi l'ora sul display, le undici e mezzo. I casi erano due: o io ero un bradipo, o il viaggio nel tempo -spontaneo ed involontario- esisteva.
Constatai di non avere elementi per scartare nessuna delle due soluzioni.
E poi, mi chiesi, che ci faccio al supermercato?
Spesso mi scordavo di comprare l'acqua, forse essere lì era un segno. Acquistai due confezioni da sei bottiglioni, feci la fila alla cassa da bravo zombie, pagai e m'incamminai verso casa, faticando come un cammello.
Il sole era alto, splendente, anche se l'arrivo di settembre aveva mitigato le temperature io stavo sudando, la situazione sotto le mie braccia si era fatta critica.
Ancor prima di aprire il portone, sentii il solito baccano provenire dalla palestra. Quelle stronze non avevano intenzione di smettere.
Confidai che avrebbero finito per l'ora di pranzo. Entrato in casa gettai la tracolla sul divano e poi tentai di sistemare l'acqua: in frigo c'erano già cinque bottiglie, inoltre, un pacco identico ai due appena comprati, occupava il posto che usavo per la scorta. Rammentai che avevo provveduto alle mie necessità idriche il giorno prima. Sospettai di avere forti carenze mnemoniche, la cosa non mi suonava nuova. Scelsi di vedere il lato positivo: per un po', non sarei morto di sete.
Accesi il pc, mentre musica e danzatrici continuavano a negarmi un salutare silenzio. Sbrigai un paio di cose, dopo di che -finalmente- mi ricordai dei buoni propositi: lasciai che una doccia mi risvegliasse del tutto e si portasse via il classico odore da disadattato che avevo addosso.
Anche la doccia era un mezzo per i viaggi nel tempo: finii di lavarmi che era quasi l'una.
No, quelle non la smettevano, e io avevo fame.
Non mi andava di mettermi a urlare e tirare cazzotti al muro, ma nemmeno di mangiare con tutto quel casino. Era passata una vita dall'ultima volta che ero stato a mangiare al fastfood di Marco, dove gli hamburger erano genuini e i prezzi onesti.
Affare fatto, mi dissi.
Poco dopo, mentre stavo uscendo, ebbi la sensazione di dimenticarmi qualcosa. Misi le mani in tasca: cellulare e chiavi, tutto ok.
Cavalcai la mia fidata bici e pedalai in direzione del pranzo. Il vento mi accarezzava il viso e il velocipede avanzava fluido. Decisi di ascoltare un po' di musica durante il tragitto, per rifarmi le orecchie.
Cercai le cuffie.
Le cuffie erano nella tracolla.
La tracolla era a casa.
Bestemmiai, poi risi di me, poi bestemmiai di nuovo, ma col sorriso sulle labbra. Il buco nel quale abitavo continuava ad essere invaso da note orientaleggianti. Non me ne curai, agguantai la tracolla, controllai che dentro ci fossero soldi e cuffie, fatto questo scappai nuovamente fuori di casa.

Giunsi al locale -un piccolo chiosco in muratura, situato in una delle piazze vicine al mare di Lido di Camaiore-, tutti i miei ritardi avevano sortito un effetto secondario che non mi dispiaceva affatto: il posto faceva orario continuato, ma la stagione era ormai finita, così, passato il momento del pranzo, i clienti scemavano, e con loro la confusione.
Entrai col sorriso imbarazzato di un amico che non si fa vivo da tanto tempo. La ragazza al bancone mi guardò senza capire il perché. In effetti credevo di trovare qualcuno del personale col quale avevo fatto amicizia mesi prima. Anzi, quasi un anno prima. Ma la vita andava avanti. Almeno per gli altri.
"Ciao, dimmi pure" la ragazza di colore me lo disse con un tono gentile, era di una bellezza non comune.
Presi tempo guardando i cartelloni luminosi alle sue spalle, in alto, poi optai per il solito: "Un cheese senza né salse, né cipolla."
"Vuoi il menù?" domandò, io avevo un debole per le ragazze di colore. Quella aveva un sorriso mondiale, un viso dolce, un corpo longilineo e i modi garbati: ero già cotto.
"Sì, va bene, e da bere una lattina di coca."
"Ok" mi diede la lattina e un bicchiere "accomodati pure, appena è pronto te lo porto io."
Alle sue spalle c'erano le scanalature nelle quali, dalla cucina, arrivavano le ordinazioni, si poteva intravedere chi era al pezzo. Riconobbi Marco, il proprietario, un uomo snello, dagli occhi chiari e riflessivi. Anche lui mi vide, mi fece un cenno con la mano, io ricambiai il saluto e ruotai l'indice, per fagli capire che dopo avremmo chiacchierato un po'.
Mi sedetti ad un tavolino vicino al bancone, uno dei pochi 'dentro' al locale, e presi Furore dalla tracolla, per leggere qualche pagina nell'attesa che arrivasse il mio panino. Devo dire che ogni cinque parole... facciamo tre, ogni tre parole davo un'occhiata alla ragazza, cercando di passare inosservato. Aveva una bella voce, mi piaceva sentire mentre rispondeva ai clienti.
Alla fine arrivò il menù che avevo ordinato: "Buon appetito" mi disse sorridendo.
"Grazie" non aggiunsi altro. Lei annuì e tornò alle sue faccende. Con le ragazze ci sapevo proprio fare; non avevo una storia da anni, chissà perché.

Avevo mangiato lentamente per godermi la presenza di Sara, così si chiamava. No, non avevo attaccato bottone, ero semplicemente riuscito a leggere il suo nome dal cartellino. Marco uscì dalla cucina, portava un vassoio con sopra un'insalata e una bottiglietta d'acqua. Lo invitai a sedersi al mio tavolo: mi andava di chiacchierare un po' con lui, e sì, speravo che ciò diventasse occasione di conoscere la sua dipendente.
Parlammo di tante cose, io rispondevo tramite pilota automatico. Ero bravo in quello, davo l'idea di seguire il discorso e di fornire spunti interessanti. Ma la verità era che, mentre Marco mi parlava di come era andata l'estate, degli affari, mentre mi spiegava che aveva subito un furto, che aveva cambiato parte del personale, io ero concentrato su Sara.
Finimmo gli argomenti, mi alzai e lo salutai. Lei era in cucina, non ebbi modo di dirle nemmeno ciao. Non c'era ragione di esserne dispiaciuti, in fondo non c'era stato nulla di travolgente, non la conoscevo, non sapevo chi fosse e cosa volesse dalla vita. Avevo solo sentito il profumo di un fiore, non era detto che quel fiore esistesse davvero.
Ma, ammisi a stesso, non avevo nemmeno tentato di trovarlo, forse perché i fiori mi avevano spesso fatto male.

Rientrando notai che la serranda della palestra era ancora tirata giù a metà -era l'usanza quando facevano lezioni domenicali, visto che sull'orario era indicata la chiusura-. Vidi le macchine delle allieve ancora parcheggiate, ma adesso c'erano un paio di tizi che aspettavano l'uscita delle propria belle. Era giusto sperare?
Entrai e il silenzio mi accolse come una vasca di acqua tiepida dopo una giornata pesante.
Accesi il pc, avviai OpenOffice, volevo scrivere un racconto. Feci per allungare le mani sulla tastiera, la musica ripartì, e con lei i sonagli, e con loro le mie bestemmie, dette sotto voce, sibilando, come una preghiera affinché Dio la smettesse di prendersela comoda e scatenasse l'apocalisse per fare un po' di pulizia.
Guardavo la schermata del programma di videoscrittura, la pagina bianca, il cursore nero che lampeggiava.
Chiusi gli occhi, il respiro si fece profondo, stavo per esplodere. In un attimo ero al portone. Prima di aprire sentii uno di quei tipi parlare al telefono: "No, Sonia stasera è con delle amiche" teneva la voce bassa, si doveva essere appoggiato al portone proprio con l'intenzione di non essere sentito: non gli era andata bene.
Aspettai un attimo, quello continuò: "Vai tranquilla Elena, qualcosa m'invento... sì, certo, anch'io ho voglia di scoparti..."
A quel punto aprii. Lui scattò di lato e mi guardò impietrito. Non dissi nulla, andai all'entrata e mi abbassai per passare sotto al bandone mezzo aperto. Una volta che mi videro, l'insegnate e le ragazze si fermarono, lo stereo continuò.
"Sì, cosa c'è?" fece l'istruttrice, una donna vestita da odalisca, in forma, bel fisico, ma con la faccia segnata dal trucco e dagli anni.
Attaccai ad urlare: "E' tutto il giorno che tenete la musica alta! Ce la fate a lasciare tranquillo il vicinato, almeno di domenica?"
"Senti" disse in tono piccato "questa è una palestra privata" poi aggiunse, alzando anche lei la voce stridula "fuori! Vai fuori dalle palle, cretino!"
Le allieve sorrisero, compiaciute dalla fermezza della femmina alfa.
"Palestra privata un cazzo! I giorni della infrasettimanali non mi lamento, né all'ora di pranzo, né a quella di cena, neppure il sabato, lo so che la palestra deve lavorare... Ma la domenica, la domenica voglio essere lasciato in pace! Spegnete questa musica di merda!"
Lei non disse nulla, deglutì, sembrò che le mie urla l'avessero colpita. Andò verso lo stereo. Aveva capito, ero salvo...
Invece alzò il volume, poi mi guardò sorridente.
Sbroccai, mi avvicinai all'hi-fi in un turbinio di moccoli, lo staccai dalla presa e lo sbattei in terra, frantumandolo e danneggiando anche il parquet, poi feci un passo verso l'insegnante, quella tirò un urletto e si ritrasse. Stavo bene, accidenti se stavo bene, godevo.
Restarono tutte impietrite, non dovevo avere una faccia rassicurante. Andai verso l'uscita, mi fermai un attimo, poi scattai all'indietro e gridai: "E chi è Sonia?!?"
Restarono tutte zitte.
"Chi è Sonia!?!" e battei un pugno sul muro.
Alcune indicarono una ragazza, quella alzò la mano restando a bocca aperta.
"Il tuo ragazzo si scopa Elena. Statemi bene." Detto ciò, me ne andai.
Ridevo, ridevo così forte che mi risvegliai da quel sogno ad occhi aperti. La musica era sempre lì, ma non la sentivo più. Le dita iniziarono battere sulla tastiera con buon ritmo.
Quando sei in un mare di merda, non vale il detto "o bere, o affogare". Il meglio che si può fare, con la merda, è usarla come fertilizzante.


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