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FESTIVAL DI CANNES 2011: “Restless” di Gus Van Sant (Un Certain Regard)

Creato il 13 maggio 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

restless

Lo si attendeva da un pezzo il ritorno di Gus Van Sant, il maestro dei piani sequenza infinti, lenti che bucano lo schermo, collocandosi in fuori campo anarchico e visionario. Dopo aver trionfato nel 2003 sempre a Cannes con lo sconvolgente Elephant, e dopo la parentesi di Milk, biopic che valse l’Oscar come migliore attore a Sean Penn, il regista americano torna a calcare la croisette e, anche stavolta, cambia registro, se non altro dal punto di vista formale, costruendo un film decisamente atipico, discutibile, coraggioso.

Due giovanissimi ragazzi, Annabel (Mia Wasikowska) e Enoch (Henry Hopper, figlio del celebre Dennis), intrecciano un’originalissima storia d’amore, segnata, fin dall’inizio, dalla stella della morte. Annabel, nonostante le sia stato diagnosticato un cancro al cervello, ha conservato un amore per la vita senza riserve, sconfinato; il suo sorriso candido e solare illumina il mondo che la circonda; Enoch, giovane introverso che ha perso tragicamente i genitori, si è chiuso in se stesso, intrattenendo un rapporto con un amico immaginario, un pilota d’aerei giapponese della seconda guerra mondiale, insomma un kamikaze.

Già appaiono evidenti le visioni dell’esistenza che vengono a incontrarsi: da un lato, potremmo dire, un “essere per la morte”, che ricorda molto la filosofia suicida degli odierni terroristi; dall’altro una dimensione “biopolitica”, cioè di protezione e promozione della vita, intesa nel senso più ampio del termine (della vita umana, bios, e di quella animale e vegetale, zoè), e non a caso Annabel è un’appassionata lettrice dei saggi di Darwin.

Il sentimentalismo che apparentemente contraddistingue la pellicola costituisce in realtà la premessa per affrontare questioni decisive, che animano non poco il dibattito filosofico e politico contemporaneo. La relazione che intercorre tra i due giovani diviene metafora delle pulsioni che covano nel tessuto profondo della comunità, da sempre attraversata da antagonismi che chiedono di essere superati. La difesa della vita, se portata all’eccesso, può rovesciarsi in una “tanatopolitica” che, invece di immunizzare, rischia di condurre verso mali indicibili (durante il film, vengono mostrate immagini di repertorio dell’esplosione della bomba atomica sganciata dagli americani su Nagasaki).

Infine, ma ciò richiederebbe un’analisi assai approfondita, importante è comprendere il mutamento dell’operazione compiuta da Gus Van Sant a livello formale: dal carattere di sospensione – quello dei carrelli infiniti di cui si diceva sopra – che in un certo senso contestava lo statuto ontologico dell’immagine, si passa ad una dimensione iconografica, che oltrepassa la becera rappresentazione, per guadagnare la visione e, quindi, ciò che eccede l’ordinario. Così Enoch allucina con il suo amico immaginario ma, ed è questo l’importante, quando Annabel, in fin di vita, è al culmine del suo amore, riesce a vedere ciò che fino a poca prima era solo la voce delirante del suo fidanzato. La visione è sempre qualcosa di miracoloso, non può essere prodotta, giacchè è un’apparire riservato a coloro che hanno perseverato, resistendo al fascino discreto dell’immagine sub specie spaectaculi.

Su questo film di Gus Van Sant ci sarà da meditare non poco, teniamolo a mente.

Luca Biscontini


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