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Angelica Garnett. In un teatro Ariston stracolmo, la novantaduenne nipote di Virginia Woolf (figlia della pittrice Vanessa Bell) causa non poca curiosità, se non altro per vedere con i propri occhi una parente della grande scrittrice di "Gita al Faro" e farsi raccontare che tipo di zia era. Due curatrici dell'opera di Virginia Woolf leggono interminabili saggi, forse più adatti ad un'aula universitaria che a un festival della letteratura. Non mancano tuttavia suggestioni, nelle loro letture ricche di pathos, tra le quali un riferimento alle farfalle e alle falene (lei, come Nabokov, cacciava farfalle e già questo mi emoziona, nonostante la pena che provo per questi animaletti pinned to the wall). Angelica Garnett non è solo la nipote di una persona famosa, ma anche l'autrice di un libro di memorie sulla sua infanzia privilegiata, vissuta tra le più argute menti del tempo, nonché di un romanzo che è anch'esso una rielaborazione di ricordi d'infanzia. Andando a leggere la sua biografia si scopre quanto fortunata, ma anche triste dev'essere stata da bambina: con un padre inconsistente, per sua stessa ammissione, e una madre opprimente e travolgente, che aveva dato vita con il marito ad una girandola di relazioni aperte e bisessuali da far paura (Angelica è figlia dell'amante di Vanessa, che era approvato dal marito di questa, ed ha sposato a sua volta David Garnett, l'amante bisessuale del padre che l'aveva vista nascere!). La Garnett, purtroppo, è dura d'orecchi e le domande le arrivano con difficoltà. Sembra non saper cosa dire, limitandosi a ribadire che sua zia era molto affettuosa e gentile con lei. Forse gli anni si sentono e lo spaesamento anche. Nonostante ciò, Angelica pesca tra ricordi vecchi di ottant'anni per svelarci che Virginia non era una donna triste e melanconica e il suo suicidio, così tragico, non deve trarci in inganno. Nessuno, e questo stupisce tutti in sala, pensava che fosse un scrittrice di quel calibro, tranne forse il marito Stephen. Per loro era semplicemente zia Virginia.
Hisham Matar. Quando arrivo in sala, leggermente in ritardo, sento la presentatrice dire che Hisham Matar è praticamente l'unico scrittore libico che arriva nelle nostre librerie. A causa della censura e del regime di terrore instaurato da Muammar Gheddafi, infatti, è già una fortuna che qualche scrittore proveniente da quella terra sia di fatto sopravvissuto. Costretto con la sua famiglia a vivere spesso in esilio, Hisham Matar scrive tuttavia in inglese, contribuendo ad ingrossare le fila di chi scrive del proprio paese d'origine da un punto di vista esterno. Apprezzato anche da un mostro sacro come J.M Coetzee, Matar sta vincendo una sfilza di premi con i suoi libri ambientati nel Medio Oriente brutalizzato dalle dittature. Durante l'incontro non può mancare il riconoscimento del passato tragico delle relazioni Italia-Libia e il ricordo del padre dell'autore, rapito parecchi anni fa in Egitto e di cui si sono perse le tracce. L'ultimo romanzo di Hisham Matar, "Anatomia di una Scomparsa", elabora infatti i sentimenti di rabbia e vuoto provati di fronte al rapimento di un padre.
Howard Jacobson. Forse l'incontro più interessante a cui ho assistito, anche perché ho appena finito l'ultimo romanzo dell'autore. Howard Jacobson viene spesso annoverato tra gli scrittori inglesi più interessanti in circolazione, ma allo stesso tempo viene etichettato non di rado come il Philip Roth inglese (entrampi scrivono quasi sempre di sesso e di ebraismo). Howard Jacobosn quest'anno ha vinto persino il Booker Prize, il premio più prestigioso per uno scrittore di madrelingua inglese, insieme al Pulitzer. Tutto ciò nonostante si fosse sempre detto che un libro sull'identità ebraica non ce l'avrebbe mai fatta. Secondo Jacobson, il motivo per cui "L'enigma di Finkler" ha invece avuto così tanto successo è insito nel protagonista, Julian Treslove, che non è ebreo ma vorrebbe esserlo e quindi, un po' come Virgilio nella Divina Commedia, ci accompagna in un viaggio attraverso la scoperta dell'identità ebraica in Inghilterra. L'incontro diventa poi quasi una lezione, di quelle chiarificatrici, sull'umorismo ebraico: "gli ebrei raccontano le barzellette migliori", sostiene l'autore, "perché sanno che il mondo è divertente perché in realtà non lo è". Quando gli viene chiesto perché scriva sempre sull'identità ebraica, Jacobson diventa improvvisamente enigmatico e sbotta: "Ebbene sì, mi sveglio alla mattina e penso, 'sì, sono ebreo'". Non ho capito se parlava sul serio o se era l'ennesima battuta, ma in fondo, "L'Enigma di Finkler" è tutto giocato sul capire e non capire queste filosofie dell'identità. Di momenti esilaranti durante l'incontro ce ne sono stati a bizzeffe, ma quello sul momento in cui ha vinto il Booker Prize è quello che ha fatto letteralmente sganasciare il pubblico dalle risate. L'autore ha infatti ricordato come il giorno in cui ha vinto il premio è stato anche quello in cui i minatori cileni sono usciti e... Ah, ma io non la racconto bene, e quindi ci rinuncio già dall'inizio!
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