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Figli d’Italia

Creato il 30 ottobre 2010 da Radicalelibero

Figli d’Italia

C’è qualcuno che sostiene una teoria stramboide: prima di giudicare un libro, occorre averne letto almeno 99 pagine. Ebbene, mai come nel caso de “I treni della felicità” (Giovanni RinaldiEdiesse), questa definizione fu tanto sbagliata. Inizia con una telefonata, col trillo vivo di un telefono, e termina con un abbraccio, con il punto esclamativo sentimentale. In mezzo, è un sovrapporsi di respiri, parole, viaggi, vissuti, passati e presenti, foto, pietre e scontri. Manca il superfluo, quel surplus punzecchiante e fastidioso, il rutilare delle parole vane inchiostrate tanto per occupare spazio. Per questo, a Giovanni Rinaldi, di pagine ne occorrono molte, ma molte meno della metà per raggiungere il suo scopo: che è quello di riportare alla memoria collettiva una serie di episodi che, messi insieme, l’uno sull’altro, costituiscono un unicum storico.

Figli d’Italia
“I treni della memoria” raccoglie, nella fattispecie, gli elementi per la ricostruzione del meccanismo solidale messo in piedi dall’Udi. La guerra era alle spalle, il dopoguerra portava a galla vecchie e nuove povertà. Le famiglie stentavano a trovare la quadra. Economica, innanzitutto. Ma anche a riequilibrarsi socialmente. Troppi figli ed un lavoro che, spesso, non rendeva. Furono allora le donne comuniste a dare un aiuto concreto acchè la situazione si sbloccasse. E vennero messi in piedi dei veri e propri viaggi della speranza. Vagoni carichi di bambini spediti a Nord presso famiglie più agiate. Per un pasto caldo, per un cappotto nuovo, per delle scarpe ai piedi. Alcuni tornarono col tempo. Mesi, anche un paio d’anni. Altri decisero diversamente. Giovanni Rinaldi va a riprendere queste storie ammassate per dar loro una nuova dignità storica. Eppure, il suo, non è propriamente un saggio. Piuttosto, ha la forma di un portolano antico narrato con un linguaggio marcatamente militante. È la traccia segnata, di punto in punto, di approdo in approdo, su una mappa che si snoda su più livelli. Moli sono i paesi tra cui l’autore fa da spola incessante per raccogliere le storie che sarebbero dovute confluire nel documentario “Pasta Nera” di Alessandro Piva. Battelli, i treni. Quella sommatoria di banchine e di vagoni, dimore di ricordi, capaci di trascendere il tempo e condurre nel passato.

Un diario che è un moto continuo fra Nord e Sud, fra Puglia ed Emilia Romagna, fra Campania ed Emilia Romagna, fra Lazio ed Emilia Romagna, fra Emilia Romagna ed Emilia Romagna. Pagine per annotare cosa ne è stato di quei bambini. Gianni Rinaldi cerca loro. E li fa parlare. Spesse volte fa in modo che si rincontrino. Eppure sfugge alla sindrome di Moccia. Non ha bisogno di ceselli, di dispensare buonismo a piene mani. Non spaccia panelle di pietismo a buon mercato. E certo che il terreno dell’infanzia è più che minato. Anzi, di fronte al sentire emozionale, si tira indietro, si mette in un cantuccio, intimorito, in disparte. Perché “I treni della felicità” è un libro che non vuole commuovere. Ma far pensare. E ci riesce. Con i suoi aneddoti, le battute, con la riproposizione di datati bigottismi. È un libro che emoziona, muove alla rabbia e muove alla gioia.

Per questo, cortesemente, non definitelo “storico locale”, Gianni Rinaldi. Perché è estremamente di più. È il custode di un passato che odora di pane rancido e stordisce come l’olezzo del sangue orgoglioso affossato dai fucili scelbini sui selciati del Meridione, dietro le povere barricate di carretti. È lo scrigno più prezioso delle gemme umane estraibili dalla Capitanata. Da preservare. E conservare. Con cura.

Giovanni Rinaldi, “I treni della felicità”, Ediesse 2009 Giudizio 4.5 / 5
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