di Claudia Boddi
Figli di un dio minore: la recensione del film del 1986
“Figli di un dio minore” è un film del 1986 diretto da Randa Heines, interpretato dall’attrice statunitense sorda, Marlee Matlin – la più giovane vincitrice del Premio Oscar per questa opera – e da William Hurt, anche lui pluricandidato e premiato durante la carriera. Tratto dalla stesura teatrale omonima di Mark Medoff (“Children of a lesser God”), nel cast compare anche la bellissima Piper Laurie, nel ruolo della madre di Sarah (Marlee Matlin), nota al pubblico, oltre che per la sorprendente bellezza che ne ha caratterizzato la giovinezza, anche per la varietà dei personaggi rivestiti in film, serie televisive, show, opere teatrali e quant’altro.
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Al centro del racconto, la storia d’amore tra Sarah e James (William Hurt). Quello che i nostri due protagonisti si trovano a vivere è un amore speciale, nato tra una ragazza completamente non udente e muta e un insegnante della lingua dei segni. James approda al suo nuovo incarico lavorativo con l’entusiasmo che lo contraddistingue, con grandi speranze e molta voglia di fare. Si comporta con la sua classe di allievi non udenti in maniera originale e, se vogliamo alternativa, rispetto al protocollo ortodosso previsto per l’insegnamento. Infatti, cerca di valorizzare le loro abilità piuttosto che le loro difficoltà. James ha un obiettivo: insegnare a parlare ai ragazzi a cui insegna per renderli capaci di cavarsela senza problemi nella vita di tutti i giorni. Per raggiungere il suo scopo, usa la musica e le vibrazioni che i giovani studenti possono percepire, i giochi di gruppo che coinvolgono tutti con simulazioni corporali e ripetute, fino a realizzare anche uno spettacolo teatrale interno alla scuola, dove loro sono i protagonisti, che come in un musical, li vede, attori, cantanti e sfrenati ballerini. Guardati con sospetto e, in certi momenti anche osteggiati dal personale scolastico, i suoi metodi risultano più che efficaci, soprattutto perché migliorano le relazioni tra le persone, rendono più fluida la comunicazione e i ragazzi si sentono meno vittime della loro disabilità.
Un giorno, a mensa, una ragazza minuta dalla gestualità potentissima, colpisce l’attenzione di James che non può far altro che raccogliere informazioni su di lei e finire per conoscerla. Le si avvicina, inizialmente, offrendosi come suo tutor per il linguaggio, cosa che la tenace Sarah rifiuta subito e con forza, fino a quando poi le aspettative sul loro rapporto cambiano. In un susseguirsi di coinvolgenti passaggi fatti di esperienze quotidiane, i due si innamorano e cominciano a vivere la loro storia come tutte le altre coppie del mondo. Nonostante la totale accettazione da parte di James della compagna Sarah e nonostante l’enorme capacità di lei di adattarsi alla vita, così come si propone ogni giorno di fronte ad ognuno di noi, i due amanti arrivano a un punto di svolta dove entrambi chiedono di poter esprimere la propria personalità a pieno titolo e su un livello paritetico rispetto all’altro. Sicuramente questo è uno dei punti più toccanti del film e cinematograficamente uno dei più belli. Niente di diverso rispetto al processo di consolidamento che caratterizza la maggior parte delle coppie. Come si evolverà la storia in seguito, non resta altro che scoprirlo guardando il film.
Quello che emerge con forza da tutta le pellicola è che ci sono degli aspetti costitutivi dell’essere umano che sono veramente universali, che esistono per quello che sono al di là delle differenze di sesso, etnia, religione o ceto sociale. Le differenze si possono integrare e nella diversità possiamo vivere serenamente dal momento che la qualità della vita di ognuno di noi è determinata soprattutto dalla qualità delle relazioni che abbiamo, a prescindere dal modo con cui comunichiamo, ci muoviamo o parliamo.
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