di Rina Brundu. In ordine storico più o meno “sparso” sarebbero: Aspasia di Mileto (già donna amatissima da Pericle), Ipparchia, Leonzia, Ipazia, Plotina, Trotula de Ruggiero, Ildegarda di Bingen, Rebecca Guarna, Cristina di Lorena, Elisabetta di Boemia (già destinataria delle lettere di Galileo), Elisabetta principessa del Palatinato (bellissima e forse amata da Cartesio), Mary Astell, Lucrezia Marinelli, Suor Juana Inés de la Cruz, Margaret Cavendish (duchessa di Newcastle), Cristina Trivulzio di Belgioioso, Edith Stein, Simone Weil, Hannah Arendt, Simone de Beauvoir. E qualche altra ma sempre poche.
Si tratta naturalmente di una lista delle filosofe più conosciute. Degli spiriti pensanti declinanti al femminile who-made-it! Il problema (che esiste, come sempre!) – oltre a quello evidente del numero limitato – diventa sostanziale quando si va a guardare di cosa hanno cogitato e di cosa hanno scritto. Escludendo infatti le grandi le filosofe di età “classica” – Ipazia, soprattutto – e alcune grandi autrici moderne come la Hannah Arendt, la loro produzione è in qualche modo imbarazzante quando non insultante. Di fatto queste donne si sono confrontate soprattutto con i problemi posti dal loro essere donna, vedi dunque Mary Astell con le sue “Alcune riflessioni sul matrimonio (1700)”, la Lucrezia Marinelli con “La nobiltà e l’eccellenza delle donne co’ difetti et mancamenti degli uomini (1601)”, la Belgioioso con “Della condizione delle donne e del loro avvenire (1866)”, la Stein, la De Beauvoir con le analisi più o meno acute sulle molteplici sfaccettature che – mi azzardo a scrivere – caratterizzano (o caratterizzerebbero) un’essenza incarnata in un corpo femminile.
Ti girano le palle che non hai: a mille! Difficile riuscire a comprendere questa limitazione (imposta, autoimposta?), sebbene possa risultare più semplice farsene una ragione storica. Basta focalizzare infatti sul notevole cambio di passo imposto dal cristianesimo alle donne, un gioco pesantissimo che evidentemente non soffriva (si fa per dire dato il suo destino ultimo) l’Ipazia vissuta intorno al 415 d.C. Una ridda di imposizioni, prevaricazioni, angherie sociali che hanno portato la donna a concentrare il suo pensiero sul “pseudo-problema” e sui “pseudo-problemi” derivanti dal suo essere tale, piuttosto che a questionare i massimi sistemi cosmologici, politici, estetici, morali… un “realm” questo di cui sembrerebbe essersi impossessato in maniera totalizzante il cogitare dotato dei gioielli di famiglia tra le gambe.
Una triste eredità che purtroppo si è trascinata fino ai giorni nostri dove oggi come oggi è finanche difficile trovare una qualsiasi donna professionista che sia figlia delle sue stesse idee, che abbia fatto senza l’appoggio di un uomo, che abbia il coraggio delle proprie cogitazioni e della loro originalità. Da questo punto di vista uno dei versanti più patologici – oltre quello mediatico dentro le cui nefaste dinamiche non c’é minuto che scorra senza che l’universo femminile venga declassato ad angolo gossiparo, casalinghico e pornografico – è quello politico dove – impunemente e con spavalderia – l’universo-donna viene reiteratamente strumentalizzato in maniera vergognosa; costretto in un luogo deputato, vittima della cosiddetta, perniciosa Sindrome delle Quote Rose, portatrice dell’ignominiosa frustrante coscienza che non siedi su quello scranno per tuo merito ma perché qualcuno ha pensato bene di farti sedere colà. Mossa politicamente ineccepibile, naturalmente: il suo consenso cresce e la tua immagine splende… di luce riflessa.
Lo status-quo è deleterio al punto da uccidere ogni speranza. Paradossalmente sprazzi importanti di luce li vedevo da bambina davanti ad un esempio di nonna figlia di archetipi matriarcali purtroppo rari e dimenticati; davanti ad una figura femminile che dominava il nostro mondo con saggezza innata e acquisita, che non coltivava soggezione alcuna della prevaricante dimensione maschile: né sul piano intellettuale né su quello pratico, ordinario, quotidiano. Pensare che non aveva mai studiato, che all’amatissimo padre rimproverava soltanto di non averla mai mandata a scuola e dunque di averle impedito di poter scrivere il suo nome e il suo cognome. Si chiamava Giovanna Cabras e per certi versi lei vive in me, proprio come le tante storie di vita che mi raccontava anche durante le inutili serie di Pasqua. Del resto bisognava distrarsi in qualche modo e lei credeva poco in Dio, quel tanto che basta.
Featured image, Simone Weil, 1921.