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Filosofia, rock psichedelico e… metacronismo. Intervista a Sonia Caporossi – a cura della Redazione de L’Ornitorinco

Creato il 16 ottobre 2014 da Criticaimpura @CriticaImpura
Sonia Caporossi,

Sonia Caporossi, “Opus Metachronicum”, Corrimano Edizioni 2014

A cura della Redazione de L’Ornitorinco

Sonia Caporossi è docente, musicista, scrittrice, critico letterario, artista digitale; si occupa di estetica filosofica e filosofia del linguaggio. Suona il basso elettrico nel gruppo di art – psychedelic rock Void Generator. Ha pubblicato saggi, poesie e prose su riviste e blog come Cadillac, Nazione Indiana, Musikbox, Scrittori Precari, Fallacie Logiche, Kasparhauser.

Allora Sonia, cominciamo subito, OPUS METACHRONICUM, come mai un titolo del genere?

Non è un neologismo, come alcuni hanno pensato. Il metacronismo è un termine tratto dalla biologia, e sta ad indicare, citando la Treccani, la “successione temporale che caratterizza il movimento coordinato di una serie di ciglia vibratili. Nell’insieme si verifica un movimento a onde, chiamato metacronico”. Io riprendo il termine e rispetto a questa accezione originaria gli attribuisco un significato filosofico, volendo con esso indicare un fenomeno letterariamente manifestatosi all’interno del mio libro, in cui i vari personaggi, protagonisti e coprotagonisti, vengono sollevati dal loro tempo e dal loro luogo specifico e catapultati giocoforza nel cronotopo attuale per assurgere a significazioni iconiche, a simboli e metafore delle varie atrocità del nostro Evo contemporaneo.

Facciamo un focus sui personaggi dei tuoi racconti. Con quale criterio li hai scelti come protagonisti delle tue storie?

Ogni racconto prende il titolo da un personaggio “metacronico”, appunto. Essi incarnano le figure che mi hanno maggiormente influenzato, sia in senso positivo che in senso negativo, nella mia formazione intellettuale. Il primo è Van Gogh, che nel libro rappresenta il rifiuto nichilistico dell’Artista di fronte ad una interpretazione positiva dell’arte contemporanea. L’arte in effetti, oggi  ha modificato il proprio statuto rispetto all’arte classica. Come scrivevo in un articolo di tre anni fa su Critica Impura, “col Novecento l’arte non sta più lì semplicemente a darci la Bellezza con la B maiuscola: essa ci fornisce l’accesso ad altro, e normalmente non ce ne proviene che il brutto, ovvero la testimonianza storica del tempo in cui viviamo, cosa che tutta l’arte in ogni tempo ha sempre anche fornito, ma non in modo esclusivo come invece accade oggi; la differenza sta nel fatto che nell’arte contemporanea in senso storico abbiamo perso il senso del bello come qualcosa d’essenziale all’arte e l’abbiamo sostituito con la concettualità, cioè con delle etichette di sensi e significati semplicemente incollate sugli oggetti d’arte.” (L’urlo e la teoresi: appunti sullo statuto dell’arte contemporanea, Critica Impura, 31/08/2011). Lo statuto dell’arte contemporanea insomma non è più estetico, ma teoretico, non vi ricerchiamo più necessariamente la bellezza ideale, ma un quid concettuale che ci faccia pensare, che significhi il mondo in cui viviamo. Van Gogh nel mio racconto se ne rende conto, e quindi il suo accecarsi finale significa proprio questa presa di coscienza dell’Artista orfano ormai per sempre della bellezza. Ecco, ogni racconto mette in scena un personaggio che a sua volta discute un argomento attraverso cui si dipana la nostra crisi contemporanea, la nostra mancanza di punti di riferimento, la volatilizzazione della nostra dimensione primigeniamente umana. Ci sono tanti aspetti toccati. Ad esempio Marguerite Yourcenar è un po’ un personaggio in cui mi rispecchio, sia per questioni biografiche che per la sua intrinseca aspirazione alla Parola Assoluta. Nel libro scrive l’ultima lettera a Grace, la compagna della sua vita, prima di darsi la morte. È un momento molto toccante all’interno del libro, come diversi altri. Ci sono poi due vere e proprie vendette letterarie, ovvero racconti in cui faccio compiere ai personaggi un atto di rivalsa nei confronti di chi li ha oppressi o vilipesi all’interno del loro romanzo “originario”. Ad esempio il marito pluricornificato di Madame Bovary si trasforma nel mio racconto in un assassino sanguinario che ironicamente scopre solo dopo averla uccisa i tradimenti della moglie; Marcel Proust sembra posseduto da una sorta di  perversione devotée (spesso l’elemento horror è presente nella mia poetica, anzi, Edgar Allan Poe-tica, non so se mi spiego…), e in un inno straniato alla gelosia sevizia Albertine dopo averla fatta prigioniera, facendola letteralmente a pezzi ma poi rendendole la libertà sul finale del racconto, quando deciderà di tagliarsi le mani e, attraverso i propri moncherini, di espiare la vera e suprema delle perversioni, che non è l’omosessualità, non è il devotismo, bensì è la passione smodata alla scrittura, la propria indefessa grafomania. C’è poi Dorian Gray…

Ecco, spiegami questa cosa di Dorian Gray gemello doppelganger di Oscar Wilde.

È un racconto che finge di essere la lettera che un filologo scrive ad un professore universitario, in cui si paventa il ritrovamento di un manoscritto autografo di Oscar Wilde all’interno del quale sono annotati in forma romanzesca passaggi chiave della sua vita. Dorian Gray si scopre così essere il gemello evanescente di Oscar Wilde, il suo calco esistenziale incarnato nel perfetto contrario, ovverossia nel proprio “daimon” cattivo. Come saprai, un gemello evanescente è un fenomeno biologico che esiste realmente, e consiste nella sparizione o riassorbimento dell’embrione gemellare nella placenta, che lascia a svilupparsi un feto soltanto il quale, una volta nato, non saprà mai di avere avuto un fratellino in utero. Si tratta di un fenomeno non poi così raro, si calcola infatti che circa il dieci per cento delle gestazioni sono state all’origine gemellari o plurigemellari. Nel mio racconto, questa suggestione diviene un gioco di specchi reduplicato, come se prendesse vita una specie di chiasmo strutturato in questo modo: Dorian personaggio – Oscar e Dorian fratello evanescente – il suo ritratto. Non è solo una trovata narrativa come tante tra quelle contenute nel libro, ma anche un tentativo metagenere di ermeneusi critica del personaggio. Dal punto di vista narrativo, in qualche modo c’è anche Lynch dietro questo racconto…

Pasolini nel tuo libro sembra quasi che diventi allegoria della Cultura e la sua morte, dunque, determina la fine di quest’ultima. Quanto manca oggi un intellettuale di quel calibro?

Pasolini è stato cristificato in virtù della sua morte, tale che il processo di beatificazione che la sua figura ha subito come ennesimo atto di violenza post mortem avrebbe interdetto lui stesso, ne sono sicura. All’interno dei due racconti a lui dedicati ho cercato di rendergli un omaggio assolutamente non edulcorato, privo di falsi moralismi. In P.P.P. cerco di mettere in scena la sua figura passionale e la sua “disperata vitalità” attraverso la crudele dualità, drammaticamente vissuta dal poeta, della propria condizione di intellettuale e artista (la vita che faceva di giorno ovvero la propria cultura) e quella di omosessuale oppresso da un senso edipico di rifiuto e di mancanza di amore (la vita che faceva di notte ovvero la propria natura). Jack lo Squartatore è il personaggio che ne ritrova le spoglie maciullate la notte del due novembre all’idroscalo di Ostia e che in virtù di quel ritrovamento subisce come uno shock, tale da trasformarsi nell’assassino seriale che nell’archetipo letterario e storico di fatto è (ad un certo punto dice “Ho avuto come un’illuminazione sonora: la rapsodia sinergica dell’odio”). Il suo odio asociale si scatena a partire dalla presa di coscienza di essere un uomo mediocre appartenente alla massa, un uomo che non potrà mai essere un Intellettuale e pertanto ne disprezza l’intima essenza perché non ci arriva. Con questo racconto è come se fossimo un po’ tutti dei serial killer, giacché ogni volta che la Cultura con la C maiuscola e gli Intellettuali, che ne sono i cantori, ci lasciano anche solo indifferenti è come se violentassimo non solo l’intellettuale di turno, ma noi stessi e la nostra umanità sempre più reificata e omologata. Ho voluto fare inoltre un esperimento psicologico: il lettore attraverso l’Io narrante tende a identificarsi con Jack e con l’odio sordo e distruttivo che mette in scena nel finale; spero che lo shock sia grande durante la lettura, perché il messaggio di questo racconto è particolarmente forte, come uno scossone alle fondamenta della consapevolezza critica e sociale di ognuno di noi.

La figura di Stachanov mi intriga da sempre e sono molto lieto di averla ritrovata nel tuo libro. Questo personaggio sembra essere il risultato della morte di P.P.P.: una volta sconfitta la Cultura lo Stato servendosi del buio della mediocrità genera uomini pronti a sacrificare le loro vite senza che questi si domandino neanche il perché. Parliamone.

Ogni racconto nasconde fra le sue pieghe un significato profondamente filosofico. Ad esempio i tre miti greci che introduco nei relativi racconti rivissuti alla luce della contemporaneità, ovvero Morfeo, Erostrato e Prometeo, rappresentano nei tempi moderni il Sonno della Ragione, la marcescibilità dell’Arte Classica (come accade anche in Van Gogh) e gli svantaggi della Téchne. In particolare, Stachanov rappresenta il proletario, il lavoratore, l’uomo comune, la semplice pedina degli scacchi che non assurge a dignità di comando e di importanza storica, in questo cosmo composto di insetti laboriosi che non si domandano mai il perché delle cose, un po’ come avviene in un enorme formicaio. Ecco, la metafora dell’Uomo imprigionato nelle sue funzioni sociali obbligatorie all’interno del formicaio mi sembrava decisamente abusata; pertanto, ho deciso di inventarne una variante, ovvero di scrivere un racconto distopico in cui l’Uomo scavasse sette miliardi di buche per quanti siamo sul Pianeta, buche tutte indirizzate verso il centro della Terra, senza necessità, senza utilità e senza scopo, un lavoro inutile, che c’è solo perché qualcosa nella vita si dovrà pur fare, e che ha l’esclusiva funzione metamorfica di trasformare il protagonista in una talpa “immolata al “Non – Sistema” anarchico che vige nella società postcomunista immaginata all’interno del racconto. Stachanov, insomma,  rappresenta una denuncia dell’alienazione del lavoratore (in termini se vogliamo hegeliani) di fronte alla propria Missione fagocitante e onnipervasiva e rispecchia l’angoscia del mondo contemporaneo, dalla società industriale avanzata fino alle esagerazioni del settore economico quaternario.

Questa pletora di personaggi, reali e immaginari, tutti costretti a ripercorre il loro ineluttabile destino, mi ricorda una canzone di Bob Dylan… hai presente Desolation Row?

A dirla tutta, a me ricordano il mio percorso filosofico anticostruttivistico che cerca di individuare ad una ad una le imposture del postmoderno. È un libro di densità concettuale abbastanza inusuale, unita ad un tentativo, che i critici sapranno dirmi se ben riuscito o meno, di ritorno formale ad uno stile neobarocco e massimalista, questa volta applicato al testo breve e non al romanzo, che contemporaneamente dovrebbe nelle mie intenzioni saldarsi ad una istanza di recupero di alcuni personaggi e temi della letteratura classica, rivisitati in chiave ipermoderna.

Insieme ad Antonella Pierangeli, nel 2011 crei il blog Critica impura. Leggendone il manifesto ho notato moltissimi punti in comune con OPUS METACHRONICUM. Mi sbaglio?

Ci sono diversi elementi “impuri” all’interno del mio libro, e parecchi commi del Manifesto di Critica Impura sembrano quasi una dichiarazione di poetica che calzano a pennello per OPUS. Per esempio, laddove si definisce l’impurezza come “l’amore per la diversità e la dissonanza come categorie estetiche di analisi dell’humanum”, oppure come “l’attitudine a percepire il contrario del contrario per ritrovare l’identità scissa e frantumata del reale”; o ancora, quando si delineano gli obblighi del critico impuro il quale, per definirsi tale, deve “recuperare la dimensione estetica come categoria salvifica per l’artista e per il fruitore” e insieme “distinguere il senso nel non – senso, ed attraverso il non – senso gridare al mondo gli infiniti sensi dell’uno e del molteplice”. Non è un caso che il libro si apra con una citazione dal mio Maestro, il filosofo estetico Emilio Garroni: “L’artista sta sempre, esemplarmente, sul discrimine invisibile che separa senso e non – senso, così come, non – esemplarmente, ci stiamo tutti”. Questa massima vuol rimarcare l’importanza esemplare del lavoro dell’artista il quale, attraverso le proprie opere, rende testimonianza del Tempo in cui vive cercando di penetrarne il “dover essere del senso”, laddove invece l’uomo comune, in quanto fruitore, vi si abbandona come guidato di riflesso. E, detto tra noi, proprio in ciò risiede l’istanza profondamente educativa dell’Arte, ancor oggi.

Domanda filosofica (o se preferisci banale): perché scrivi?

Per ritrovare oltre la crosta stantia del reale quell’ideale morbido e diafano attraverso cui solamente si può riuscire a penetrare il velo della falsità.

Tu oltre ad essere una scrittrice sei anche una musicista. Quanto c’è di ciò che suoni in ciò che scrivi?

Io con i Void Generator suono space rock psichedelico da qualcosa come diciotto anni (ci siamo formati nel 1996 e siamo uno dei pochi gruppi che suonano heavy psych in Italia!). Ecco, direi che un po’ di fervida psichedelia è sempre presente, specialmente nella dimensione fantastica o bizzarra che permea spesso le cose che scrivo. In effetti, questo libro rappresenta anche un tentativo di andare a parare nel meta – genere, superando i ristretti confini dei generi letterari in quanto tali e mescolandoli con modalità massimaliste anch’esse rivisitate.

Visto che non so come chiudere: progetti per il futuro?

Come sai, io faccio anche il critico letterario e musicale. A breve esce Poeti della lontananza, un’antologia di poeti italiani ultracontemporanei che scrivono “lontani da casa” di cui io ed Antonella Pierangeli abbiamo svolto la curatela critica. È un progetto che ci ha impegnate negli ultimi due anni e che finalmente vede la luce per i tipi di Marco Saya Editore. Con questo lavoro siamo volute tornare ad una impostazione antologica “per temi”, contro l’attuale tendenza italiana a costruire antologie accorpando i singoli autori per età anagrafica senza un reale nesso fra le loro poetiche. A ottobre comincia la nuova serie di Moonstone, la trasmissione di musica alternativa e letture poetiche che curo per le frequenze di RCM – Radio Centro Musica; nello stesso periodo, inoltre, i Void Generator si chiuderanno in studio per registrare il prossimo album in presa diretta. Il titolo del disco dovrebbe richiamare proprio Opus Metachronicum…

PER LEGGERE L’INTERVISTA ORIGINALE SU L’ORNITORINCO CLICCA QUI.


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