di Rina Brundu. La nonna amava alzarsi all’alba. E preparare il caffè. Dentro una caffettiera strana. Napoletana mi pare la chiamasse. Non usava il fornello ma faceva bollire l’acqua tra la brace e la cenere del camino, dopo avere acceso un fuoco bello che rischiarava la piccola cucina rosata e le dava…. atmosfera. Mi piaceva assistere a quei riti mattinieri e le rare volte che mi era concesso di alzarmi con lei diventavano per me occasioni importanti. Mi affascinava il buio fuori dalla finestra, il rumore del vento che spazzava il grande stradone, il freddo intenso che viveva dentro un suo silenzio profondo. Uguale in tutto per tutto a quello di lei. In quegli attimi laboriosi la nonna, infatti, non parlava mai. Trafficava muta, immersa in privati pensieri, con indosso la solita camicia bianca e la gonna lunga. I capelli pure lunghi raccolti a crocchia, lo sguardo vecchio ma bello, quello strano segno sulla fronte a memoria di una caduta di bambina. Osservarla andare e venire mi dava sicurezza, la sua saggezza, innata, mi regalava conforto. Sapevo che in sua presenza non avrei avuto nulla da temere. Anche per questo, un giorno, feci il diavolo a quattro per accompagnarla a portare le capre dal pastore che le avrebbe condotte al pascolo. Che lei non si era mai opposta a quella mia richiesta ma per riuscire nell’intento occorreva il consenso altrui. E poi un mattino presto di primo autunno, imbaccuccata a dovere, la mia mano piccola nella sua più grande, misi dietro alle bestie festose. Ricordo il mio respiro che si condensava nell’aria ghiacciata a formare nuvole trasparenti destinate a perdersi nell’istante. Ricordo la strada vuotata e il rumore diminuito dei nostri passi affrettati. Ricordo lucette vaghe in lontananza oltre quelle più rassicuranti dei grandi lampioni aggrappati a lunghi pali di legno piantati a distanze uguali. Ricordo l’arrivo nel luogo convenuto e la nebbia improvvisa. E poi il viso di un uomo fatto, vissuto, temprato dal tempo, spuntare diffidente dalla cappa umidiccia con lo sguardo fisso su di me. Ebbi paura, strinsi più forte la mano di lei e decisi che non era avventura da ripetersi. Mi mancava la tempra! “Mani troppo piccole” criticava spesso la zia, guardando le mie. “Non servono a niente!”. E a suo modo quel commento sineddico era una sentenza: per qualche ragione, io, a quel mondo non vi appartenevo pienamente. Ero… differente. La nonna invece non si perdeva mai in simili chiacchiere oziose. Riteneva che la vita occorresse viverla con altri strumenti e alla di lei madre, venerata, incensata, adorata, idealizzata nel ricordo, rimproverava soltanto di non averla mandata a scuola. E quando mi raccontava di simili faccende coglievo nel suo discorso l’invito implicito a guardare oltre un mondo che lei non avrebbe potuto lasciare. Che lei non avrebbe voluto lasciare. Mai! Neppure io. Allora! Perché quel mondo era bello. Si reggeva – l’ho capito poi – dentro dinamiche fragili ma viveva di una consistenza interna straordinaria e di una bellezza epidermica che lasciava senza fiato. Ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, ogni mese, ogni anno nascevano segnati da un profumo, da un colore, da un valore diverso che sapeva crescere nel ricordo. Novembre, per dirne una, era il tempo delle castagne. Andare a raccogliere quei frutti gustosi, opportunamente protetti da madre natura dentro cappotti verdastri, spinosi, resistenti, diventava un’avventura in sé. Diventavano momento-importante le chiacchiere, le risate, sotto quegli alberi possenti. Bellissimi. Diventavano avvenimenti da scolpire nella nostra memoria giovane le infinite serate trascorse intorno al camino, trascorse a nutrire di frasche secche il fuoco svelto necessario per cuocere le castagne dentro la grande padella bucata. E mentre le frasche morivano inghiottite da lingue rossaste e sempre più alte, producendo rumori simili a disperate preghiere di anime dannate, spesso e volentieri nella grande cucina rosata echeggiava soltanto la voce di lei che nel nostro silenzio perfetto raccontava le sue storie. Che raccontare storie, favole, momenti, ricordi di un mitizzato passato le riusciva come nient’altro e per quelle storie chiedeva rispetto. Che – pure questo l’ho capito poi – a modo loro tali racconti, tali favole, di una Sardegna che era stata, riproposte all’infinito, parlavano di tutto. E di niente. Erano strato epidermico amorevolmente costruito, erano abito leggiadro intessuto per dare decoro ad un mondo altrimenti nudo, ad un mondo che non aveva troppa coscienza delle sue possibilità. Anche solo per potersi raccontare. Ad un mondo che per fato e destino aveva scelto di vivere-soltanto, senza farsi troppe domande. Ad un mondo che non aveva il tempo di fermarsi. Ad interrogarsi. Ad un mondo che lottava nel silenzio per proteggere la sua identità alla stregua degli scostanti cinghiali che infestavano le foreste intorno, restii a farsi addomesticare. E che protetto dall’ombra benigna e ad un tempo immutabile della Grande Montagna, esisteva determinato a spirare con dignità. A farsi apprezzare nel ricordo, a farsi rimpiangere in ogni istante e in ogni momento futuro, come un tesoro di valore perduto ma capace di creare l’illusione di essere semplicemente… nascosto. Dentro quell’ideale cestino di preziosi brilla come diamante favoloso il ricordo di lei, della sua figura bella, della sua accorta saggezza, del suo viso strano, dei suoi modi pacati, dei suoi racconti vissuti che illuminano come luce sfolgorante ogni giorno della mia vita.
Featured image, sole che sorge in Ogliastra, autore Rina Brundu.