di Rina Brundu. Certe notti di fine agosto la volta celeste ardeva di una luce brillante. Mentre intenta a prendere il fresco, mi piaceva posare la testa sul grembo della zia o della nonna e fissare le stelle. Che splendevano. Vicine. E mi pareva di dover tendere solo la mano per coglierne. Qualcuna. Di tanto in tanto la marmitta stonata di un vespino solitario che percorreva in lungo il grande stradone, rompeva quel silenzio che sapeva d’incanto e a suo modo ti costringeva a razionalizzare. Così, in quella quiete diversa, non era raro udire voci chiare e più o meno agitate provenire da altri vicinati. Anche quelli mezzo addormentati, anche quelli raccontati da momenti ispirati, da storie incredibili, favole antiche, curiose vicende, motti di spirito e altre faccende. Poi una risata, a suo modo sguaiata, indecorosa, sconveniente, zotica, maleducata sapeva esplodere improvvisa nell’aria, obliava i rari canti di insetti, nascosti, protetti, dentro cespugli maestosi, nodosi, spinosi, sagome sfatte di manieri improbabili, e proclamava chiusa la storia. Avanti con un altro racconto, anche quello conosciuto a memoria.
Che le storie più importanti narrate da quei vecchi erano i loro propri giorni vissuti ma non lo sapevano. XXXXXX, per esempio, aveva trascorso un’intera esistenza schiava del suo corpo piccino e malfatto. Una intera esistenza costretta a pulire, rammentare, spazzare, cucinare. Per gli altri. Sognare? Il dubbio tormentava me ma non osai mai farle domanda. Prima che ci lasciasse. Per sempre. Del resto di cosa avrebbe dovuto fantasticare? Dove sarebbe dovuta andare? A YYYYY, infatti, che piccina non era stata mai e, al contrario di XXXXX, aveva sempre avuto una gran bella figura, l’idea di abbandonare quel borgo, l’ombra benigna della Grande Montagna e l’impressione di eternità che marcava ogni sorgere di sole non sarebbe mai passata per la mente. Della sua vita trascorsa ad aspettare che lui finalmente tornasse, che la neve squagliasse, che il grano maturasse, non avrebbe buttato via niente, senza considerare che alla fine aveva avuto ragione lei e lui era tornato. Uomo cresciuto, prostrato, cambiato ma in fondo non troppo diverso dal ragazzo che aveva amato. Milioni di anni prima, in un tempo che io, bambina, non riuscivo ad immaginare se non come scampolo, baleno, minuto frammento di un diverso universo malauguratamente perso.
Ma questi erano momenti di vicinati altrui. Nel nostro la nonna faceva punto che si ricordassero solamente le gesta de “is mannos”, di quegli avi arbitrariamente mitizzati, moralmente elevati che avevano lasciato un segno nella “sua” esistenza e conseguentemente nella nostra. Lo zio, fedele al suo spirito irriverente, opponeva i racconti di caccia o le gesta meno nobili di questo o quel bandito sfuggito per fato o per fortuna all’agguato delle forze dell’ordine. La sua risata non era mai fastidiosa, rumorosa, contagiosa, piuttosto un ghigno diabolico e furbo con il quale lui si faceva gioco del mondo. E di noi. Creando… distanza. Il nonno invece non parlava mai. Seduto nell’angolo più distante fumava l’eterno sigaro infilandone la parte accesa in bocca e vivendolo fino all’ultima boccata. Di fumo. Nel suo silenzio tutte le domande mai fatte che non avrebbero avuto più risposta.
A Settembre però con l’approssimarsi della vendemmia anche lui diventava in certo modo vivace. Si alzava all’alba, riempiva sa berthula, prendeva la corriera e scendeva a su sartu ‘e josso perché tra quelle colline assolate, a metà strada tra l’abitato di Villagrande e le pianure di Arbatax, si trovava la sua amatissima vigna. Che, grazie a lui, era diventata la nostra. La mia. Un vigna fatta di ricordi impressi nella memoria come tracce indelebili di ferro caldo su tessuto prezioso e giovane. Fatta di infiniti filari verdi, di grappoli giganti, di acini violacei o giallognoli, di larghe foglie verdastre, frondose, eleganti capaci di vestire la mano. Fatta di terra rossa faticosamente lavorata, impreziosita di olivi antichi, di macchie di fichi d’india colorati, pungenti e vagamente scostanti. Colorata di luce finissima, profumata di aria leggera, di pesche quasi selvatiche, di frutta matura, di mosti salutari, di erbe gialle di sole e del passo fresco di centinaia di lumache in processione dopo una trascurabile notte di pioggia. Allietata di canti di ragazze occupate a vendemmiare, di risate di bimbi, di milioni di momenti-altri, scolpiti nella mente e impossibili da dimenticare.
Poi se ne andò nel silenzio che gli era sempre stato più congeniale e senza che gli potessi più parlare. Se ne andò senza che avessi mai capito che il suo spirito libero, dolce e ad un tempo ribelle, non si poteva imprigionare e che se la guerra è dura la sua era stata molto speciale., Adesso dorme anche lui sulla collina, accanto a XXXXXX e all’uomo amato da YYYYYYY, accanto ai cacciatori di frodo e ai banditi di cui si faceva gioco lo zio, accanto a milioni di altri frammenti, momenti, istanti di certe splendide notti d’estate, scordate, obliate, passate, ineluttabilmente… andate.
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Dedicato alle Pussy Riot. Perché alla maniera dei vecchi di Sardegna, spesso richiamati dai loro pascoli atavici, dal loro eterno silenzio a combattere guerre di cui non sapevano, occorre sempre lottare, con forza, per la libertà dello spirito, del corpo, della mente. Contro ogni forma di sopraffazione personale, professionale, intellettuale, politica e religiosa. Contro ogni forma di ignoranza che travestita da rito o da mito più o meno condiviso limita le possibilità del nostro Essere. E cosi facendo, lo deprime.
Featured image, le Pleiadi, fonte Wikipedia.