Magazine Cultura

Fimmine Ribelli: intervista a Lirio Abbate

Creato il 05 luglio 2013 da Tabulerase

fimmine ribelliLirio Abbate, inviato de l’Espresso, ha lavorato in precedenza a La Stampa e all’Ansa dove è stato capo servizio.

E ‘nato a Castelbuono, in provincia di Palermo e ha iniziato la sua carriera giornalistica nel 1990 al Giornale di Sicilia. Nel 2003 è stato premiato come giornalista dell’anno dall’ Unione Nazionale Cronisti (Unci). Si è occupato di mafia e di immigrazione sulla costa siciliana ed è stato l’unico giornalista presente alla cattura, nell’aprile del 2006, di Bernardo Provenzano.

Nel 2007 ha pubblicato con Peter Gomez, il libro “I Complici” sui  legami tra politici e mafia.

Il boss mafioso Leoluca Bagarella lo ha minacciato pubblicamente durante una udienza in tribunale nell’ottobre dello stesso anno.

Vincitore fra gli altri, del Premio Ischia e del Premio Vittorini 2008. È stato autore e conduttore insieme a Peter Gomez della trasmissione televisiva Impronte di mafia. Nel 2010 gli è stato assegnato il Premiolino, prestigioso riconoscimento del mondo giornalistico.

Quest’anno ha pubblicato : “Fimmine Ribelli – Come le donne salveranno il Paese dalla ‘ndrangheta” (Rizzoli).

 La Calabria delle “Fimmine Ribelli” è un mondo a parte, oscuro e arcaico. Da dove dovrebbe partire il cambiamento vero? E’ sufficiente la ribellione delle donne?

 Un contributo fondamentale perché questo risveglio possa verificarsi anche in Calabria può darlo indubbiamente la scuola, che in molte realtà della regione svolge un prezioso e capillare lavoro di educazione alla legalità. Aiutare i ragazzi ad aprire i loro orizzonti andando oltre i confini della cultura imperante, a giudicare con spirito critico ciò che accade ogni giorno anche all’interno delle loro famiglie può diventare uno strumento molto potente per contrastare il dominio dei clan. E i successi finora non sono mancati. Poi tocca alla cultura. Ci sono ragazzine, non solo di famiglia della ‘ndrangheta, che ancora oggi sono costrette a sposarsi bambine e a subire in silenzio violenze e soprusi. Madri, mogli, sorelle schiacciate da leggi arcaiche e retrive che fanno pagare il tradimento con la vita. Perchè ancora oggi ci sono vittime di una brutalità antica che ha cambiato volto ma resta identica nella sua ferocia atavica: il delitto d’onore. Nel ventunesimo secolo esiste ancora. Come nel remoto Afghanistan dei talebani, anche in Calabria resiste il codice che punisce con la morte il tradimento femminile. La ’ndrangheta ignora la modernità, anzi la trasforma in una colpa. A queste ragazze voglio raccontare storie di donne che hanno trovato la forza di ribellarsi e denunciare padri, mariti e fratelli, minando dall’interno il loro mondo di prepotenza e omertà. Queste ragazze hanno acceso luci di speranza in nome della legalità e del diritto di scegliersi la vita, e molte altre stanno oggi seguendo la loro strada. Mi piacerebbe che il loro coraggio aiutasse le ragazze a crescere orgogliose di essere fimmine calabresi.

Le donne che si ribellano al codice d’onore pagano spesso un prezzo salatissimo, eppure ci provano, perché gli uomini no? Perché hanno più difficoltà a scuotersi e a denunciare?

 Per un fatto di onore. Sì, uno stupido fatto sociale che chiamano onore ma che di onore non ha nulla. E molti uomini intendono l’affiliazione ai clan come un grande ingresso nella società. Neanche in Sicilia la mafia ha gioco così facile nel reclutare gli uomini: in tutta Palermo non ci sono tanti affiliati quanti a Rosarno. A Bagheria, per esempio, nel momento di massimo fulgore di Provenzano, gli affiliati a Cosa nostra noti erano non più di una cinquantina. Le ’ndrine non possono prescindere dal vincolo con la terra d’origine, ma i loro traffici sono oggi di portata globale. E purtroppo gli uomini ne traggono benefici economici e sociali. Basta pensare che quando una fimmina non solo riesce a scampare al destino che i familiari le hanno assegnato, ma si affida allo Stato, ovvero al nemico, in cerca di protezione, gli effetti del suo tradimento si amplificano. Perché voltare le spalle al clan è un’eclatante infrazione del codice, della legge che sancisce il dominio assoluto degli uomini sulle donne. È un atto di ribellione che sgretola l’immagine di compattezza che il clan ha bisogno di ostentare all’esterno, che mette in dubbio i valori, e rivela i limiti e l’impotenza di uomini incapaci di tenere in riga le loro donne. E, soprattutto, rischia di accendere in altre fimmine la consapevolezza della propria condizione, e il desiderio di scrollarsela di dosso. Una donna che si affranca dalla condizione di sudditanza imposta dal clan può diventare per tutte le altre un modello allettante, fa intravedere un’alternativa di vita, una concreta prospettiva di riscatto. Anche se è pericoloso, e a volte costa davvero tanta fatica. Le donne ci riescono, gli uomini faticano a farlo.

Il substrato culturale talebano che impedisce alla Calabria di “stare al passo con i tempi” , alimentando i fenomeni criminosi, deve essere sradicato dalle radici. Lo Stato di Diritto, il nemico della ‘ndrangheta, che ruolo deve avere in questo processo?

 Lo Stato deve fare la sua parte e la gente la propria, precisando che tutti siamo Stato. Accade che i clan godono del consenso di molti settori della società calabrese. Coi soldi che ricavano dalle attività illecite creano lavoro dove il lavoro purtroppo non c’è, e sono percepiti quasi come benefattori. Omertà e connivenza trovano spesso giustificazione nella convenienza, oltre che nella paura: meglio schierarsi con chi ti dà il pane che con uno Stato che ti promette sviluppo e benessere e poi latita e ti abbandona a te stesso. E sono sempre di più quelli che scelgono di affiliarsi, soprattutto nelle zone più disagiate della Calabria.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :