Non sappiamo se György Pálfi ne fosse consapevole o meno durante la realizzazione di Final Cut: Hölgyeim és uraim (2012), è presumibile di sì, ma di primo impatto chi si affaccia più volte sul balcone della nostra mente è la venerabile coppia Baruchello & Grifi con la loro terremotante Verifica incertadel ’65, non c’è nessun confronto in atto perché l’opera dei due avanguardisti italiani nasceva in un contesto culturale diverso, per loro fare un film così era ciò che lo sperimentalismo chiedeva e chiede tutt’ora a gran voce, e cioè sovvertire, provocare, scardinare, non per niente il corto fu molto apprezzato da Duchamp, per Pálfi invece Final Cut è stata più che altro una necessità vista la mancanza di denaro per girare normalmente, e poi ciò che compie il regista ungherese è un’esaltazione del cinema, una specie di glorificazione, mentre per Grifi si era trattato più che altro di un atto terroristico: rivoluzionare dall’interno il cinema americano, ed anche se allineiamo i montaggi dei due film è possibile notare come quello dei nostri connazionali sia più irregolare, sporco, alienato. Poco importa però, il lavoro di Pálfi, durato tre anni a partire dal non eccelso I Am Not Your Friend (2009), suscita comunque ammirazione a prescindere da inopportuni paragoni (il giudizio che si avvale del paragone è un giudizio inopportuno. Ho parlato), forse si attenua un poco la possibile esaltazione poiché ci rendiamo conto di non trovarci di fronte ad un prodotto definibile come seminale, ma lo dico sottovoce, e quasi non mi sentirete più…
Il mosaico che contiene i tasselli di oltre quattrocento film costruisce incastro dopo incastro la celebrazione del montaggio. Non c’è altro, qui, che non trovi senso nella sequenzialità scelta da Pálfi, e sebbene si sappia dai tempi di Ėjzenštejn che il montaggio fornisce significazione, in Final Cut arriviamo all’apoteosi: se non ci fosse il procedimento di taglia e cuci allora non ci sarebbe nemmeno il film in sé né la collaudata storiella d’amore che racconta. È curioso che Pálfi, giusto per ricordare è l’autore di Taxidermia (2006), abbia utilizzato un massiccio numero di pellicole dallo stampo classico (c’è La donna che visse due volte, 1958) e commerciale (c’è Avatar, 2009) per erigere il proprio monumento al cinema quando lui stesso è un’artista lontanissimo da quelle aree; l’uso dello scheletro narrativo che ricalca qualunque love story con annesso happy end o l’avvalersi di espedienti scadenti del tipo era-tutto-un-sogno, concorrono al tributo di un cinema che non appartiene al sottoscritto e credo nemmeno a Pálfi, comunque se ampliamo lo spettro visivo ritengo che sia lodevole il movimento concettuale del regista il quale, in un’ottica universale, ovvero l’ottica costitutiva dell’opera, ci restituisce un trattato perfettamente moderno sullo stato dell’arte. Perché nell’epoca attuale, imbolsita da flussi narrativi programmaticamente incanalati, l’incedere tramite lacerti sconnessi ed in teoria inconciliabili appare la migliore alternativa per un manufatto realmente organico basato su una molteplicità che sa ricongiungersi nell’unicità. E non vi è alcuna intercessione divina, “soltanto” la versatilità del medium cinema, qui trasportata, almeno per quanto concerne la montatura, all’acme.