Giorni, anzi, settimane di articolesse grondanti retorica sulla necessità, quasi il "dovere" di tifare Atletico Madrid, nella finale - derby di Champions League 2013/2014, in quanto esponente di un'idea di calcio ancora a misura d'uomo, di un modo di gestire un club senza scialare coi milioni di euro, in totale controtendenza rispetto alla grandeur economica del Real Madrid. Bene, a parte il fatto che la sociologia spicciola e le lezioncine morali applicate allo sport non mi sono mai piaciute, alla fine il giudice supremo, per fortuna, rimane il campo: e dall'atto conclusivo di quella che fu la Coppa dei Campioni è sempre lecito attendersi prestazioni di livello almeno decente da parte delle due contendenti. Per quanto mi riguarda, se seguo una partita in cui non sono coinvolto emozionalmente, o rimango neutro o mi viene spontaneo parteggiare per coloro che provano quantomeno a onorare il calcio sul piano estetico e tecnico. LA VITTORIA DEL CALCIO - Ecco perché, sabato sera, sono stato quasi "costretto" a tifare Real. Perché c'è un limite a tutto, anche alla voglia di celebrare un successo storico per una realtà media (non certo piccola, attenzione) del football europeo. Deve vincere il calcio, alla fine: e al Da Luz, due giorni fa, il pallone stava invece andando incontro a una colossale Caporetto. Bisogna dire grazie a Sergio Ramos, inatteso eroe di questa chiusura di Champions, già "giustiziere" del Bayern in semifinale: non fosse stato per la sua poderosa inzuccata su corner, al terzo dei cinque minuti di recupero della ripresa, la cosiddetta "coppa dalle grandi orecchie" sarebbe andata a premiare chi non la meritava, lanciando un messaggio "minimalista" che non avrebbe certo aumentato l'appeal di questo sport. E sì, perché è stato un brutto Atletico, quello visto in campo a Lisbona; esauriamo subito il discorso legato alle attenuanti: quelle contingenti, come l'immediato infortunio di Diego Costa (ma qualcuno avrà pur deciso di mandarlo in campo nonostante fosse noto il suo "zoppicante" stato fisico, o no?), e quelle di lungo periodo, e il riferimento è alla rosa ristretta e di qualità non sovrumana con cui la squadra ha dovuto affrontare una stagione mai così carica di impegni, di stress, di sollecitazioni emotive. CATENACCIO PURO - Concesse però ai Colchoneros tutte le giustificazioni del caso, rimane la ben povera impressione suscitata dalla squadra di Diego Simeone, che, ricordiamolo, è arrivata a un passo dal centrare il più grande traguardo della sua storia giocando pochi scampoli di un football accettabile ma non trascendentale nella prima frazione, andando in vantaggio col più classico dei gollonzi (comproprietà Godin - Casillas) e poi armando un secondo tempo all'insegna del catenaccio inteso nella sua forma più retriva e deteriore: Gabi e compagni hanno cominciato a rinculare fino ad asserragliarsi nella loro trequarti, con un affanno via via sempre più marcato ed evidente. Merito anche del Real, certo, che aveva le risorse di classe e di atletismo per reagire al rocambolesco svantaggio. Ma i bianchi non erano in una delle loro serate migliori: Cristiano Ronaldo ha girato in folle per lunghi minuti, Benzema semplicemente non è esistito, un centravanti boa vecchia maniera inconsistente quanto a partecipazione alla manovra, piazzato in avanti in attesa di palloni giocabili e puntualmente neutralizzato dalla retroguardia avversaria, al punto da far sorgere seri dubbi sulla sua effettiva consistenza internazionale (attendiamo i Mondiali per conferme o smentite). BALE FENOMENO - Anche il team di Ancelotti, tuttavia, ha avuto le sue brave attenuanti: al di là della condizione precaria di CR7, infatti, si è scoperto una volta di più quanto sia vitale per la manovra "blanca" la presenza del cervello tuttofare Xabi Alonso, malinconicamente relegato in tribuna dalla squalifica, mentre poco comprensibile è stata la rinuncia iniziale a "Ficarra" Marcelo, poi rivelatosi autentico apriscatole della partita nei supplementari assieme a un Di Maria già in forma Mundial, intermittente ma in grado di regalare pregevolezze mai fini a loro stesse. Per fortuna e abilità del Real, come detto, ci sono stati un Sergio Ramos sempre più autoritario col passare degli anni, al punto da tentare con frequenza (e successo) l'incursione offensiva, un Bale che sprecherà l'inverosimile ma è un martello pneumatico, un mostro di tecnica, fisico e agonismo le cui percussioni, alla lunga, sono in grado di fiaccare anche la difesa più serrata (e quella dell'Atletico lo era), e ci sono state soprattutto "garra" e fiducia cieca nella rimonta anche quando tutto oramai pareva perduto: armi, queste ultime, di cui di solito si fanno vanto le piccole e medie realtà calcistiche, sintetizzabili con quell'umiltà che invece, ogni tanto, anche i colossi finanziari dell'impero pallonaro riescono a tirare fuori: e quando accade, fatalmente, le gerarchie e la classe superiore tornano a prendere il sopravvento. L'ATLETICO SENZA INTENSITA' - Riguardo all'Atletico Madrid, lo si dovesse giudicare solo dall'orrenda prestazione di Lisbona verrebbe fin troppo facile parlare di bluff destinato a durare poco. Probabilmente non sarà così, sia per il grandissimo spessore del trainer (se resterà) sia perché il club ha mostrato grande abilità nello sposare morigeratezza gestionale ad acume tecnico, capacità di sostituire i partenti con elementi magari non quotatissimi ma in grado di garantire affidabilità e rendimento (con conseguente rapida crescita delle loro quotazioni finanziarie). Per quanto mi riguarda, ho visto all'opera i biancorossi altre volte, in stagione, e se debbo dirla tutta raramente mi hanno estasiato: per come la vedo io, praticano un gioco tradizionale ma declinato secondo canoni tattici e atletici assolutamente contemporanei. E' una manovra scarna, essenziale, fondata sulla maniacale attenzione alla copertura, sull'equilibrio assoluto fra i reparti, sul dinamismo: uno stile che viene esaltato quando è possibile tenere ritmi di gioco elevatissimi, la cosiddetta intensità: sabato scorso, al Da Luz, i ragazzi di Simeone sono stati "intensi" solo per pochi minuti, poi hanno sposato il primo non prenderle spingendolo fino al limite estremo. Ed è stato giusto che, alla fine, non abbiano vinto i peggiori.
Finale di champions league: ecco perche' ho dovuto "tifare" real madrid
Creato il 26 maggio 2014 da CarlocaGiorni, anzi, settimane di articolesse grondanti retorica sulla necessità, quasi il "dovere" di tifare Atletico Madrid, nella finale - derby di Champions League 2013/2014, in quanto esponente di un'idea di calcio ancora a misura d'uomo, di un modo di gestire un club senza scialare coi milioni di euro, in totale controtendenza rispetto alla grandeur economica del Real Madrid. Bene, a parte il fatto che la sociologia spicciola e le lezioncine morali applicate allo sport non mi sono mai piaciute, alla fine il giudice supremo, per fortuna, rimane il campo: e dall'atto conclusivo di quella che fu la Coppa dei Campioni è sempre lecito attendersi prestazioni di livello almeno decente da parte delle due contendenti. Per quanto mi riguarda, se seguo una partita in cui non sono coinvolto emozionalmente, o rimango neutro o mi viene spontaneo parteggiare per coloro che provano quantomeno a onorare il calcio sul piano estetico e tecnico. LA VITTORIA DEL CALCIO - Ecco perché, sabato sera, sono stato quasi "costretto" a tifare Real. Perché c'è un limite a tutto, anche alla voglia di celebrare un successo storico per una realtà media (non certo piccola, attenzione) del football europeo. Deve vincere il calcio, alla fine: e al Da Luz, due giorni fa, il pallone stava invece andando incontro a una colossale Caporetto. Bisogna dire grazie a Sergio Ramos, inatteso eroe di questa chiusura di Champions, già "giustiziere" del Bayern in semifinale: non fosse stato per la sua poderosa inzuccata su corner, al terzo dei cinque minuti di recupero della ripresa, la cosiddetta "coppa dalle grandi orecchie" sarebbe andata a premiare chi non la meritava, lanciando un messaggio "minimalista" che non avrebbe certo aumentato l'appeal di questo sport. E sì, perché è stato un brutto Atletico, quello visto in campo a Lisbona; esauriamo subito il discorso legato alle attenuanti: quelle contingenti, come l'immediato infortunio di Diego Costa (ma qualcuno avrà pur deciso di mandarlo in campo nonostante fosse noto il suo "zoppicante" stato fisico, o no?), e quelle di lungo periodo, e il riferimento è alla rosa ristretta e di qualità non sovrumana con cui la squadra ha dovuto affrontare una stagione mai così carica di impegni, di stress, di sollecitazioni emotive. CATENACCIO PURO - Concesse però ai Colchoneros tutte le giustificazioni del caso, rimane la ben povera impressione suscitata dalla squadra di Diego Simeone, che, ricordiamolo, è arrivata a un passo dal centrare il più grande traguardo della sua storia giocando pochi scampoli di un football accettabile ma non trascendentale nella prima frazione, andando in vantaggio col più classico dei gollonzi (comproprietà Godin - Casillas) e poi armando un secondo tempo all'insegna del catenaccio inteso nella sua forma più retriva e deteriore: Gabi e compagni hanno cominciato a rinculare fino ad asserragliarsi nella loro trequarti, con un affanno via via sempre più marcato ed evidente. Merito anche del Real, certo, che aveva le risorse di classe e di atletismo per reagire al rocambolesco svantaggio. Ma i bianchi non erano in una delle loro serate migliori: Cristiano Ronaldo ha girato in folle per lunghi minuti, Benzema semplicemente non è esistito, un centravanti boa vecchia maniera inconsistente quanto a partecipazione alla manovra, piazzato in avanti in attesa di palloni giocabili e puntualmente neutralizzato dalla retroguardia avversaria, al punto da far sorgere seri dubbi sulla sua effettiva consistenza internazionale (attendiamo i Mondiali per conferme o smentite). BALE FENOMENO - Anche il team di Ancelotti, tuttavia, ha avuto le sue brave attenuanti: al di là della condizione precaria di CR7, infatti, si è scoperto una volta di più quanto sia vitale per la manovra "blanca" la presenza del cervello tuttofare Xabi Alonso, malinconicamente relegato in tribuna dalla squalifica, mentre poco comprensibile è stata la rinuncia iniziale a "Ficarra" Marcelo, poi rivelatosi autentico apriscatole della partita nei supplementari assieme a un Di Maria già in forma Mundial, intermittente ma in grado di regalare pregevolezze mai fini a loro stesse. Per fortuna e abilità del Real, come detto, ci sono stati un Sergio Ramos sempre più autoritario col passare degli anni, al punto da tentare con frequenza (e successo) l'incursione offensiva, un Bale che sprecherà l'inverosimile ma è un martello pneumatico, un mostro di tecnica, fisico e agonismo le cui percussioni, alla lunga, sono in grado di fiaccare anche la difesa più serrata (e quella dell'Atletico lo era), e ci sono state soprattutto "garra" e fiducia cieca nella rimonta anche quando tutto oramai pareva perduto: armi, queste ultime, di cui di solito si fanno vanto le piccole e medie realtà calcistiche, sintetizzabili con quell'umiltà che invece, ogni tanto, anche i colossi finanziari dell'impero pallonaro riescono a tirare fuori: e quando accade, fatalmente, le gerarchie e la classe superiore tornano a prendere il sopravvento. L'ATLETICO SENZA INTENSITA' - Riguardo all'Atletico Madrid, lo si dovesse giudicare solo dall'orrenda prestazione di Lisbona verrebbe fin troppo facile parlare di bluff destinato a durare poco. Probabilmente non sarà così, sia per il grandissimo spessore del trainer (se resterà) sia perché il club ha mostrato grande abilità nello sposare morigeratezza gestionale ad acume tecnico, capacità di sostituire i partenti con elementi magari non quotatissimi ma in grado di garantire affidabilità e rendimento (con conseguente rapida crescita delle loro quotazioni finanziarie). Per quanto mi riguarda, ho visto all'opera i biancorossi altre volte, in stagione, e se debbo dirla tutta raramente mi hanno estasiato: per come la vedo io, praticano un gioco tradizionale ma declinato secondo canoni tattici e atletici assolutamente contemporanei. E' una manovra scarna, essenziale, fondata sulla maniacale attenzione alla copertura, sull'equilibrio assoluto fra i reparti, sul dinamismo: uno stile che viene esaltato quando è possibile tenere ritmi di gioco elevatissimi, la cosiddetta intensità: sabato scorso, al Da Luz, i ragazzi di Simeone sono stati "intensi" solo per pochi minuti, poi hanno sposato il primo non prenderle spingendolo fino al limite estremo. Ed è stato giusto che, alla fine, non abbiano vinto i peggiori.
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