Una volta che sei al mondo, non c’è più rimedio: è questa la cinica osservazione che Hamm, cieco e paraplegico, ripete con una certa dose di irritante compiacimento; eppure, abbigliato in maniera eccentrica, seduto al centro del palco su una poltrona a rotelle, Hamm è uno degli ultimi, grotteschi rappresentanti del genere umano.
Questo dramma di Samuel Beckett scritto nel 1957 vibra ancora di attualità, ancora di più nella versione di Lluís Pasqual, di scena fino a pochi giorni fa al San Ferdinando di Napoli, il teatro che fu del grande Eduardo e che, dopo intricate vicende, ha riaperto i battenti nel 2007.
Il regista spagnolo sceglie per i suoi interpreti quattro attori napoletani: Lello Arena, noto al grande pubblico televisivo in veste di comico, è l’insopportabile Hamm; Stefano Miglio è Clov, il giovane servo di Hamm che non fa altro che obbedire a una sequela di ordini improbabili e assurdi; Gigi De Luca e Angela Pagano sono i vecchi genitori di Hamm, privi degli arti inferiori, che vivono rintanati in due bidoni della spazzatura.
La scena è essenziale ma abbagliante per l’intensità dei riflettori, che illuminano in pieno, senza pietà, l’interno di una casa, del tutto simile a un bunker antiatomico, nonostante Beckett abbia sempre negato l’interpretazione secondo la quale Finale di partita sia ambientato dopo un disastro nucleare. Eppure, il testo del drammaturgo irlandese non mente: fuori alle finestre, che Clov scruta col cannocchiale, non c’è più nulla; di altri esseri umani, nemmeno l’ombra; le scorte di cibo e di medicinali sono destinate all’esaurimento; la speranza per un futuro migliore? Non pervenuta.
Ma niente paura: i protagonisti beckettiani non vogliono proprio saperne di lasciarsi andare all’oblio; ne parlano in continuazione, certo, ma il loro destino è scritto nel titolo stesso di quest’opera: l’Endgame, il Finale di partita, è infatti il momento finale nel gioco degli scacchi, in cui solitamente i principianti persistono nel muovere i loro pezzi nonostante la partita sia ormai persa. L’analogia con Hamm e il suo microcosmo di disgraziati superstiti, allora, è più che chiara.
Lello Arena è il protagonista indiscusso della scena: il suo Hamm è paradossale ma non scade mai nella macchietta, anzi; la forza dell’opera di Beckett sta proprio nel suo rasentare, toccare, immergersi nell’assurdo senza perdere il contatto con la fragilità della condizione umana, la sua capacità di suscitare compassione, immedesimazione, persino. In questo i quattro attori napoletani sono perfetti: nei loro gesti e nei loro dialoghi surreali ma non troppo traspare sempre la realtà dei personaggi, il loro essere veri in un contesto in cui tutto è contraddizione di tutto, ogni cosa annulla se stessa. Gli ordini contrastanti di Hamm, l’abisso tra i gesti e le parole di Clov, il silenzio assoluto della scena spezzato dai fischi assordanti di Hamm: l’assoluto non esiste più e non ci sono verità che tengano; eppure l’umanità sopravvive, tanto nel bisogno di raccontare storie per essere ascoltati, come nel caso di Hamm, quanto nella necessità di rivivere il passato, nel caso del padre del paraplegico. D’altronde, come riporta Pasqual, era lo stesso Beckett a criticare chi si prende troppo sul serio.
Nel 1957 come ai giorni nostri; in Francia, dove Finale di partita fu pubblicato per la prima volta, come a Napoli, la città “critica” per eccellenza, piena di spunti, di genialità e contraddizioni: il gioco continua, perché forse, finché c’è umanità, la partita non avrà mai fine.