Fine inverno a Dublino (prima parte)

Creato il 16 aprile 2014 da Egosistema

Prima parte di appunti di viaggio in una città piena di colori

Atterrando la linea della costa sembra disegnare colline morbide, di un colore unico che sfuma dalla terra fino al mare. La luce mi suggerisce un calore dell’aria, una temperatura che in realtà non c’è e, in effetti, arrivando a Dublino alla fine di febbraio, non ci si può proprio aspettare di trovare un clima primaverile.

Fuori dall’aeroporto un vento gelido spazza ogni cosa, è veramente insopportabile in un primo momento, finché non ci si abitua. L’aria però è incredibilmente tersa e lucente. Nel cielo le nuvole sono davvero basse e si muovono velocemente, spinte dal vento forte, sembra di poterle sfiorare soltanto alzando una mano.

Il tragitto dell’autobus che dall’aeroporto mi porta in città attraversa quartieri dalla familiare fisionomia anglosassone, con gli edifici bassi, a due piani, i negozi dalle insegne colorate si aprono sulla strada principale, circondati dai quartieri residenziali nelle vie interne. Strano a dirsi, ma questo mi fa già sentire a mio agio in una città che non mi ha mai incuriosito e dove sono arrivata quasi per necessità di venire a trovare una persona cara che si trova qui per lavoro.

Le vie principali sono immerse nello stesso sole. È strano pensare come mi fossi sempre immaginata Dublino diversamente: grigia e opaca, così senza un motivo, come succede quando si associa un colore alle cose e ai pensieri.

O’Connell Street, la strada che taglia la città verticalmente, e le famose strade che la intersecano sono percorse da una moltitudine di persone di ogni età, soprattutto giovani. Ogni tanto noto qualche figura seduta per terra che aspetta le offerte dei passanti: sono quasi tutti giovani anch’essi. Andando verso St. Stephen’s Green – uno dei parchi pubblici situato nella zona più centrale – nel tratto più basso di Grafton Street, ecco che una moltitudine di artisti di strada, statue viventi e band musicali (con tanto di amplificatori allacciati chissà dove) popola i due lati della via, circondando il flusso incessante di turisti e di studenti delle scuole e del vicino Trinity College. È quasi sera adesso. Un ragazzo mi ferma e mi chiede qualche spicciolo per pagarsi una notte in un ostello. Non ha l’aria di essere di essere un turista. Mentre ci rifletto su, cerco un posto dove cenare.

Dopo aver mangiato ripercorro le vie principali e vedo persone portare il sacco a pelo agli angoli della strada, dove gli ingressi degli edifici forniscono un qualche riparo.

Al mio ritorno la padrona di casa, parlando del più e del meno, senza che io le chieda qualcosa direttamente, risponde perfettamente ai miei interrogativi, spiegandomi di come la crisi abbia colpito duramente il Paese ormai da diversi anni, dapprima esplodendo nel settore immobiliare, poi investendo le banche ed espandendosi sempre più. Situazione tristemente nota. Mi spiega poi che molti giovani, poiché lo stato paga loro un cospicuo sussidio di disoccupazione, preferiscono vivere con quello piuttosto che anche soltanto cercare un lavoro che non c’è. Non so che dire. Certo è che di giovani per strada ne ho visti molti.

La mattina dopo, approfittando del sole e convinta di godere di una bella giornata (e incurante delle ammonizioni sull’estrema variabilità del tempo – anche da un momento all’altro può cambiare, dicono!), decido di fare tutta la costa. Il mio soggiorno non dura molto, ho dovuto quasi incastrarlo tra gli impegni lavorativi, così non voglio perdere nemmeno un attimo. Decido di partire da nord, dal borgo di Malahide, il cui famoso castello è appartenuto alla famiglia Talbot per quasi 800 anni, fino al 1976 e si dice ancora abitato dal fantasma del Talbot che per primo lo abitò.

Il castello si trova a pochi minuti di cammino dalla stazione. A esclusione del centro visitatori (orribile, ma devono pur far soldi!), intorno non ci sono molti turisti, forse per l’ora. Solo persone che fanno jogging, famiglie con i bimbi che corrono nell’area giochi retrostante. Prima di arrivare all’ingresso del castello, si incontrano le rovine di un’antica chiesa circondata da un piccolo cimitero che conserva ancora lapidi a forma di croce celtica e altre decorazioni che rimandano alla tradizione nazionale. Più in là, campi verdi, di un verde così chiaro ma luminoso, come dell’erba appena nata. In primavera inoltrata deve essere veramente un tripudio di colori.

Sul mare, oltre il porto, si staglia il profilo basso della costa di fronte, come ricoperto da un’erba marrone, resa ancora più terrea dalla bassa marea. La baia mi sembra una laguna, tanto è vicina la penisola opposta.

Decido di scendere verso sud, ma devo tornare a Connolly Station e, nonostante il sole splenda, il suolo è tutto bagnato. Deve essere piovuto appena pochi minuti prima. In effetti il clima è veramente variabile, ma per me è una fortuna, perché adesso c’è nuovamente il sole.

Arrivo a Howth, cittadina costiera sviluppatasi in origine da un villaggio di pescatori. Prima, però, voglio arrivare all’omonimo castello nell’interno, che si ritiene sia uno degli edifici più antichi d’Irlanda. Ampiamente rimaneggiato, oggi è adibito a uso privato e non è visitabile. Una sorta di hangar proprio accanto al castello dovrebbe contenere il National Transport Museum, ma pare abbandonato. Tutto è come sospeso in un’atmosfera irreale, immerso nella vegetazione e nei rumori del bosco, e reso ancora più assurdo dalle voci che provengono dal campo da golf che circonda il castello.

La cartina sulla guida è completamente sbagliata e, avventurandomi nelle stradine e nei sentieri retrostanti alla ricerca della Tomba di Aideen (un dolmen che leggenda vuole sia la tomba della donna, morta di dolore per la perdita in battaglia del marito), mi ritrovo sempre al campo da golf, davanti ai  giocatori intenti nella partita. È tardi, mi arrendo e abbandono la ricerca perché è ora di mangiare, ma chissà se ce la farò.

Non ho ancora capito quali siano gli orari comuni dei pasti: in casa la signora mangia alle cinque e trenta del pomeriggio (quindi non riesco a immaginare a che ora possa pranzare!), ed effettivamente nei ristoranti ho visto gente a tavola dalle sei. Ma a che ora faranno pranzo? Mi avvio verso il pier e decido di entrare dove la vista mi attira di più (tenendo ovviamente d’occhio i prezzi!). Entro in un ristorante tra gli ultimi del molo, convinta che la cucina sia chiusa, ed è pieno di persone. Devo aspettare dieci minuti per sedermi e qualcuno entra anche dopo di me. Non ho decisamente capito gli orari o forse, semplicemente, qui la gente mangia a tutte le ore del giorno!

Dopo aver mangiato un pesce squisito, fuori dal ristorante la luce è cambiata: ora è livida e cupa, il sole filtra dalle nubi che sono più dense e nere. A nord, sembra approssimarsi un temporale, nuvole enormi ricoprono quella parte della costa.

Mentre l’immancabile vento mi porta qualche goccia di pioggia, mi affretto ad arrivare alla fine del molo, per vedere l’Ireland’s Eye e, se sono fortunata, anche le foche che popolano la zona del porto.

Non sono fortunata: l’ora di pranzo deve essere già passata per le foche, non riesco a scorgerne neppure una. In compenso, salendo verso il bastione del porto scorgo ben tre (e dico tre!) arcobaleni che sono comparsi col primo raggio di sole che adesso sta già prendendo il posto delle nuvole. Uno degli arcobaleni sembra spuntare proprio dalla massiccia torre Martello dell’Ireland’s Eye.

Intorno, cani che corrono nella bassa marea, persone intente a raccogliere forse frutti di mare nella striscia di terra lasciata libera dalle acque. Il colore brunastro liberato dalla bassa marea mi ricorda davvero un giorno di pioggia, l’unica nota ancora cupa in questa luminosità diffusa.


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