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Fine inverno a Dublino (seconda parte)

Creato il 02 maggio 2014 da Egosistema

Seconda (e ultima) parte di appunti di viaggio in una città piena di colori

Dalle alture sopra il promontorio di Howth si domina tutto il panorama, dal porto all’estremità opposta. Le rovine di un’antica abbazia senza tetto, la St. Mary’s Abbey, e il piccolo cimitero che la circonda ormai sembrano essere una presenza familiare del paesaggio, quasi quanto i castelli.
Proseguo il mio itinerario verso sud. Arrivo a Dalkey che è quasi il tramonto. Quello che in origine era un piccolo villaggio di pescatori dominato da ben sette castelli, da un passato più recente è diventato il rifugio dei dublinesi più benestanti fuori dal caos della città. In una miriade di nomi che richiamano il Sud Italia (una delle strade principali è Sorrento Road!), le grosse auto in sosta mi fanno capire il tenore di vita dei residenti. Dal piccolo Coliemore Harbour si vede la minuscola Dalkey Island, abitata soltanto da capre, uccelli e dalle rovine della chiesa affiancata dalla oramai consueta torre Martello. Non c’è nessuno intorno, forse per l’ora, forse per il vento e per la temperatura non proprio piacevole. Anche qui ritrovo quell’atmosfera sospesa, quella quiete e quel silenzio quasi irreali che mi hanno accompagnato spesso durante la giornata.

 


La luce adesso è rosata e disegna in modo netto soltanto le sagome dei promontori. La vista, arrivando a Sorrento Park all’estremità del paese, è sorprendente: nonostante il freddo sembra veramente un golfo mediterraneo. La ferrovia corre lungo la costa, in mezzo alla vegetazione, la stessa che riempie il parco, dove tutto è incolto, ma straordinariamente rigoglioso. Anche qui nessuno, sembra un paese disabitato.
Mi incammino per tornare a nord, verso Sandycove, camminando lungo la costa fino alla torre Martello dove Joyce, che vi aveva soggiornato, fa iniziare l’Ulisse. La strada è abbastanza lunga, ma adoro camminare e, soprattutto, mi hanno sempre affascinato i luoghi reali che si trovano nei libri. È come vedere dal vivo un luogo raffigurato in un quadro: alla fine la sensazione è sempre quella di averlo immaginato diversamente. E così anche questa volta, anche se l’atmosfera che ho colto arrivando per caso a quest’ora della sera è davvero suggestiva: adesso è proprio il crepuscolo, il mare è una distesa cupa di un indaco indefinito e le prime luci iniziano ad accendersi. Girando dietro alla torre, l’inconfondibile sagoma delle due ciminiere rosse e bianche, resa iconica da un video degli U2, si staglia familiare come a indicare il confine della città. Proprio lì, dietro alla torre, si apre The Forty Foot, la piscina naturale dove Joyce immagina la nuotata mattutina dei suoi personaggi. Inizialmente riservata ai soli uomini e poi ai nudisti, è adesso aperta anche alle donne. Cartelli regolano la balneazione e impongono l’utilizzo del costume… Ma quando riusciranno qui a fare il bagno?!? Forse ad agosto…

 


Il vento è così freddo che ora è impossibile per me stare senza cappuccio. Passeggio sugli scogli e scorgo un uomo di mezz’età che si guarda intorno, quasi imbarazzato dalla mia presenza interamente bardata da capo a piedi. Poi… incredibile: inizia a spogliarsi e a ordinare le sue cose da una parte, si sistema la cuffia e via, si immerge e inizia con le bracciate. Incredula, lo guardo allontanarsi nelle acque plumbee, certa di dover chiamare aiuto, ma l’uomo continua a nuotare incurante del freddo. Allora non vengono qui a tuffarsi solo gli esaltati dal pranzo di Natale!
Mentre un altro uomo, che sembra appena uscito dal lavoro, arriva col suo asciugamano sugli scogli come fosse mezzogiorno di una giornata estiva, mi avvio verso la fermata della DART.
I giorni successivi mi dedico alla visita della città. Il tempo è dalla mia parte, sole o poche nuvole, soltanto il vento polare continua incessante, ma non si può chiedere troppo! Visito i principali quartieri, i musei e i parchi cittadini. Sarà per il tempo quasi sempre favorevole, ma non avrei mai pensato che la città fosse così luminosa e vitale. Soprattutto scopro che le distanze sono facilmente percorribili a piedi: Dublino è una città davvero a misura d’uomo.
La guida mi suggerisce un itinerario a piedi fuori dalle zone più note, lungo i canali che tagliano la città. Seguendo il Grand Canal, a sud, fino al Dock e al Liffey, sono accompagnata dall’alternarsi continuo di pioggia e sereno (tant’è che spesso mi ritrovo con l’ombrello ancora aperto sotto il sole). Alla fine della passeggiata nel verde del Grand Canal, oltrepassando il moderno Dock, scopro una zona nascosta, con edifici forse in disuso, alcuni non terminati, demoliti o in costruzione. Su questi scheletri murales, graffiti colorati e scritte decise coprono ogni spazio disponibile. L’erba cresce dappertutto, specialmente nei terreni incolti rimasti tra una struttura e l’altra, che mi ricordano i campetti da calcio di periferia. Sembra che in questa parte di città il tempo sia rimasto fermo agli anni Ottanta. Poi, svoltando e tornando indietro lungo il fiume, ecco che il panorama abituale della città più conosciuta si apre davanti a me.

 


Il momento della visita alla cattedrale di St. Patrick arriva in una piovosa domenica mattina, in occasione della messa, seguendo il suggerimento di un ragazzo italiano per non condividerla con la massa dei visitatori. A messa finita le signore delle prime file imbandiscono una tavola nel transetto, improvvisando un rinfresco – con tanto di tovaglia multicolore – per tutti i fedeli. Questo siparietto non fa che rafforzare la mia ipotesi che per la gente di qui ogni ora è buona per radunarsi intorno a un tavolo!
L’ultimo giorno sono in compagnia di una ragazza e decidiamo di perderci senza una meta, magari per scoprire qualche angolo imprevisto di città. Quello che mi piace di Dublino è anche che i turisti sono tanti, è vero, ma sembra quasi di non vederli (fa eccezione la zona caotica del Temple Bar)… Sembrano più “amalgamati” nella città, almeno rispetto ad altri luoghi in cui sono stata. I dublinesi, invece, sembrano riconoscerli immediatamente, e non è infrequente vedere passanti avvicinarsi a qualcuno per indicargli la strada o per raccontare qualche aneddoto su qualche luogo di interesse.
Mentre sosto poco più in là della vecchia distilleria Jameson, una minuscola, anziana signora, con degli occhiali più grandi di lei, mi lascia (a sua insaputa) l’impressione più vivida e colorata della “gente di Dublino”.
Con passo marziale, si avvicina e mi chiede se sto cercando la distilleria. Senza aspettar risposta, inizia a indicare contemporaneamente la cartina che ho in mano e la Old Jameson davanti a me. La ringrazio come se mi fosse stata così utile che più non si può, nonostante l’incomprensibile accento irlandese che mi fa subito pensare di esser fortunata a non aver bisogno realmente di indicazioni. A quel punto la piccola signora mi mette una mano su un braccio e, sforzandosi di mettermi a fuoco col suo sguardo miope, sentenzia seria: “Don’t drink too much whiskey, ladies… Bring it home!!”. E riparte a passo di marcia per la sua strada. Grazie, signora, davvero!


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