Un’Unione europea più “flessibile” nell’applicazione dei suoi vincoli ai Paesi in crisi può essere utile per l’Italia? Certamente sì. La “flessibilità” che il governo italiano in questi giorni annuncia a destra e a manca di aver già conquistato in Europa può essere utile per l’Italia? Probabilmente no. Proveremo di seguito a spiegare perché, numeri alla mano.
“Flessibilità” per la governance economica dell’euro, cioè della moneta unica, la invocano un numero crescente di economisti, di tutte le scuole di pensiero. Dove per “flessibilità” non s’intende un ritorno al “lassismo” dei conti pubblici allegri che poi si traducono in tasse più pesanti per i contribuenti. Piuttosto “flessibilità” vuol dire che all’interno di una Unione economica e monetaria, con velleità di diventare un’Unione politica, un “aggiustamento” macroeconomico deve essere quanto più possibile simmetrico tra Nord e Sud Europa. Finora, invece, e per ragioni che non è possibile sintetizzare in questa sede, l’aggiustamento fiscale e di competitività è pesato quasi completamente sulle spalle dei Paesi periferici, mentre certi Paesi dell’Europa centrale (vedi la Germania) si sono addirittura avvantaggiati delle difficoltà altrui (tra cambio dell’euro sottovalutato che ha facilitato le loro esportazioni e corsa dei capitali verso i propri titoli di Stato che ha facilitato l’indebitamento, per esempio). Ottenere più “flessibilità” nella governance dell’Eurozona, abbandonando certe rigidità ideologiche o interessate della leadership europea, è un obiettivo lungimirante. A patto di non ricominciare con l’addossare tutte le colpe della nostra situazione attuale ai soliti “nemici esterni”, o di non far pensare ai cittadini che con un po’ di spesa pubblica in più (e con annesse altre tasse che arriveranno) si possa far ripartire l’economia in maniera duratura. E’ proprio quest’ultimo, invece, l’approccio che il Governo Renzi sembra preferire in questi giorni, soprattutto sui media.
Ecco allora che Graziano Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e vicinissimo al premier Renzi, ha così declinato la “flessibilità” che sarebbe stata ottenuta dal governo a Bruxelles: 10 miliardi di euro in più di spesa pubblica per quest’anno. Come si arriva a questa somma? Lo ha spiegato lunedì scorso Delrio in un’intervista al Corriere della Sera: secondo l’esponente di governo, infatti, dal conteggio del rapporto deficit/pil consentito per l’Italia si potranno scorporare i 7 miliardi di cofinanziamento nazionale dei fondi europei e altri 3 miliardi della “clausola degli investimenti” per spese ad alto impatto sociale (scuola e territorio).
1. Prima di fare i salti di gioia, consideriamo innanzitutto che circolano anche stime diverse e meno ottimistiche sullo “sconto” sul rigore fiscale ottenuto in Europa da Renzi. Confindustria, due settimane fa, era stata più prudente, fermandosi a 7 miliardi di spesa aggiuntiva che si potrebbero programmare quest’anno in nome della “flessibilità”. Tito Boeri, economista e fondatore del sito Lavoce.info, è ancora più prudente: ha scritto infatti di uno 0,1-0,2 per cento di pil in più di spesa pubblica che potrebbe essere consentita all’Italia, cioè massimo 3 miliardi di euro per quest’anno.
2. Davvero l’Italia, ammesso che riesca nei prossimi mesi a vedersi “certificata” da Bruxelles questa maggiore “flessibilità”, riuscirà a farne buon uso? La capacità d’intervento dei nostri politici e dei nostri burocrati sembra tutt’altro che una garanzia. In pochi lo ricordano, ma a dire il vero già nel 2013 la Commissione Ue riconobbe ufficialmente all’Italia un “fattore attenuante” nell’applicazione del rigore: si trattava del pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione alle imprese private. Il senso era questo: “Cara Roma, tu metti mano al portafoglio e poni termine allo scandalo di una Pa che non paga i suoi fornitori privati; in cambio noi qui a Bruxelles chiuderemo un occhio ai fini del conteggio del deficit per le risorse che avrai usato per raggiungere tale obiettivo”. Cosa è successo poi? Dei debiti della Pa da sbloccare ne è stata pagata soltanto una parte e, un anno dopo, ancora siamo qui a parlarne, col rischio di nuove infrazioni della Ue.
3. Al di là delle stime ballerine e della scarsa capacità di governo della burocrazia italiana, c’è da chiedersi se un margine di manovra dell’entità annunciata possa essere decisivo per far risalire l’economia italiana, anche ammesso che vada tutto “speso” in una diminuzione di imposte e tasse. Il governo parla in maniera enfatica di 10 miliardi di spesa in più che avremmo strappato a Bruxelles per quest’anno – come abbiamo visto prima – Altri economisti indipendenti si fermano a 3 miliardi. Considerato che lo sgravio dell’Irpef sugli stipendi più bassi di 1.500 euro, gli ormai famosi 80 euro, è costato al governo Renzi 7 miliardi per poco più di metà anno nel 2014, si capisce l’entità tutt’altro che decisiva dell’eventuale “sconto”. E questo pure nel caso che le previsioni ottimistiche di Renzi, Delrio&co. si avverassero!
4. Infine: davvero questo approccio contabile e di breve termine al concetto di “flessibilità”, questa attenzione morbosa su uno “sconto” da ottenere in termini di deficit di bilancio, è quello vincente? L’economista Roberto Perotti, sul Sole 24 Ore, domenica è arrivato a definire “irrilevanti” le regole europee, soprattutto se il nostro problema rimane un altro: “L’Italia è strangolata dalle tasse: bisogna ridurle”. Su questo sito non facciamo che sottolinearlo, ma per una volta lo lasciamo dire a Perotti: “L’unica strategia che funziona e che dimostra un decisa discontinuità con il passato è quella di ridurre le tasse assieme alla spesa pubblica. E’ un approccio lento, perché per ridurre la spesa pubblica ci vuole tempo. Ma ha anche l’enorme vantaggio che crea, per la prima volta in Italia, un gruppo di pressione, una constituency, in favore della riduzione della spesa, sia nel paese sia all’interno del governo”. Senza un programma simile, dettagliato e di medio-lungo termine, è difficile che cittadini e imprenditori – sulla base di soli annunci – ricomincino a spendere o a investire. Così tutte le misure spot (come gli 80 euro) o la maggiore flessibilità in Europa si riveleranno soltanto un palliativo.