Di base, la Flexicurity - un « compromesso storico» tra imprese, sindacati e Stato - è sostenuta da tre pilastri. Primo, l'elemento flessibile: la possibilità che le imprese hanno di licenziare (unico limite la discriminazione se hai gli occhi del colore sbagliato). «È ciò che ci consente di avere una struttura produttiva che è libera di investire e innovare senza vincoli - spiega Nils Trampe, direttore degli Affari internazionali della Confederazione degli imprenditori -. È la libertà che ci permette di salire sempre di più nella scala delle produzioni a maggiore valore aggiunto». Secondo, l'elemento sicurezza: quando si è in disoccupazione lo Stato eroga benefici significativi,: «In teoria, il 90% dell'ultimo salario — spiega il professor Madsen — ma ciò vale solo per i redditi più bassi, perché c'è un tetto massimo, attorno ai duemila euro. Per cui il sussidio medio è tra il 60 e il 70%». Finora fino a quattro anni, ma dal 2013 fino a non più di 24 mesi. Terzo pilastro, una politica molto attiva di mercato del lavoro: riqualificazione continua dei lavoratori, quando sono disoccupati ma anche quando hanno un posto; ricerca di un lavoro per chi l'ha perso; creazione di nuove opportunità di occupazione. n risultato è che la mobilità è fortissima. Circa il 25% dei danesi cambia azienda ogni anno (e molti altri cambiano posizione nella stessa impresa). Significa che, nel corso di una vita di lavoro, un cittadino può cambiare azienda e settore anche sette-otto volte. E tutti sono soddisfatti: la paura della perdita del posto non c'è perché si sa che se ne presenterà un altro; c'è in compenso l'opportunità di migliorare, in parallelo alla sempre maggiore sofisticatezza e capacità innovativa delle imprese danesi indotta dalla Flexicurity. «Se proponete a un danese un lavoro a vita, lo prenderà come una condanna all'ergastolo» sostiene Trampe. Anche nel pieno della crisi, il modello ha risposto bene: la disoccupazione di lungo periodo è al 2%, la metà della media Ue, e quella giovanile è al 14%, contro il 21 dell'Europa. Non che tutto sia perfetto in Danimarca. «Ci sono casi - racconta Trampe della Confederazione degli imprenditori - di ragazzi di 28 anni che si fanno fare un certificato medico di inabilità mentale al lavoro e per il resto della vita percepiscono un sussidio pubblico. È una situazione insostenibile che va sanata, per i giovani stessi e anche per poter ridurre il peso delle tasse». Questo però non ha niente a che fare con la Flexicurity, che invece funziona.
La difficoltà a esportare il modello nella sua interezza sta nelle condizioni al contorno necessarie a renderla possibile. Innanzitutto, il sistema sta in piedi solo se l'educazione e il training continuo sono eccellenti. Esistono corsi di educazione permanente per chi lavora, corsi di riqualificazione per chi è disoccupato, scuole tecniche e professionali che funzionano secondo la regola sei mesi in classe, sei mesi in azienda. In secondo luogo, tutto si basa sul cosiddetto sistema tripartito: Stato, imprenditori, sindacato. Un Comitato nazionale a tre fa da consulente permanente del ministro dell'Occupazione, molti altri comitati sono istituiti su questioni specifiche. In più, ogni due anni si fa un contratto nazionale collettivo per ogni settore: prima discutendo tra imprenditori e sindacati, poi chiamando un arbitro del governo se c'è disaccordo e infine passando allo sciopero se il risultato dell'arbitrato non è accettato (l'ultima volta è successo nel 1997). Infine, sindacati, imprenditori e autorità si incontrano a livello locale per risolvere ogni problema interno al modello della Flexicurity.
Un sistema del genere può funzionare solo sulla base di un'enorme fiducia reciproca, nella certezza che tutti facciano l'interesse nazionale e non solo il proprio: e questo è il terzo corollario. Quarto, i meccanismi che regolano il mercato del lavoro, a cominciare dai job-center, devono essere efficienti e non inquinati da privilegi e imbrogli. Quinto, le risorse richieste dalla Flexicurity — tra il 3 e il 4 per cento del Prodotto interno lordo - sono massicce e sono accompagnate da un Welfare State costoso, che garantisce scuola, università, ospedali gratuiti. Ciò richiede l'accettazione da parte dei cittadini di livelli di tassazione alti (il 50% del Pil) e di evasione fiscale bassi (non più del 5% del Pil).
Infine, per vedere l'occupazione come un risultato di sistema e non come un posto di lavoro garantito serve una mentalità condivisa che non si crea in poco tempo: il modello danese di mercato del lavoro basato sulla flessibilità ha quasi 113 anni, risale al settembre 1899, quando un'azione sindacale lunghissima e distruttiva convinse lavoratori e padroni a sedersi attorno a un tavolo e a discutere fino a quando non trovarono un accordo. Da allora, le cose in Danimarca funzionano così: si discute e si arriva prima o poi a una soluzione.
In altre parole, buona parte del sistema danese è molto poco esportabile. Quando la sindacalista signora Knuppert dice che se lei fosse Mario Monti costringerebbe in una stanza sindacati e Confindustria e non li farebbe uscire fino a quando non raggiungono un accordo sulla riforma del mercato del lavoro, fa capire quanto sia lontana la Danimarca dal Mediterraneo. Ciò nonostante, una lezione c'è. «Certo non potete copiarci, ognuno è il prodotto della sua storia — dice il professor Madsen — ma se qualcosa la nostra esperienza insegna è che la difesa del posto fisso e la rigidità non creano uguaglianza e benessere. Creano inefficienza, perdita di lavoro, perdita di reddito». E, presumibilmente, infelicità. «Lo status quo non è un'opzione», dicono gli imprenditori. Quelli danesi, naturalmente.