di: R. Zemeckis
con: D. Washington, K. Reilly, T. Tunie, N. Velazquez, J. Goodman, D. Cheadle,
B. Greenwood.
- USA 2012 -
138'
A tre anni abbondanti da "The Christmas carol" (2009), torna Robert Zemeckis deponendo per l'occasione la "performance capture" a favore di una vicenda classica, ovvero questo "Flight", storia drammatica di un comandante pilota di linea, Whip Whitaker (Washington), che dopo una sciagura aerea circoscritta nei danni un po' per ventura un po' per destrezza e un quasi subitaneo innalzamento a rango di eroe nazionale, constata come la ricostruzione dei fatti da parte della commissione del trasporto aereo, nonché i suoi demoni personali (alcool e cocaina), lo incalzano altresì sempre più da vicino, dandosi spesso il cambio e
brigando per una sua definitiva resa.
Fatto salvo l'insinuante uso del sonoro, vero e proprio personaggio aggiunto al cast e dopo la brillante sequenza del "quasi disastro", coinvolgente e
diretta - seppure non inedita - impostata con puntualità stilistico-espressiva
(grazie anche all'apporto della fotografia di Don Burgess e agli immancabili
effetti speciali), tra accelerazioni e sospensioni che s'intrecciano a creare
la suspense; rapidi cambi di prospettiva e silenzi improvvisi a dilatare il
momento fatale, acuendo l'impressione d'inesorabilita', la pellicola si assesta
- metaforicamente smarrendo per strada pure il celeberrimo "tempo asincrono"
della batteria di Charlie Watts nel commento stonesiano ("Gimme shelter") - su
un ritmo meno nervoso, attendista, incerto fra le analisi delle contraddizioni
e i chiaroscuri del cosiddetto "eroe per caso" - figura di un certo rilievo
dell'immaginario anglosassone - e una più decisa virata introspettiva a
rovistare i meandri dell'inferno personale voluto/tollerato,
combattuto/blandito da Whitaker/Washington.
Adagiata sugli assunti che la fondano, tra vaghi echi del "Fearless" di Weir,
l'opera a cui si assiste e' un ibrido un po' anodino, appassionante solo a
tratti e come in permanenza sulla difensiva: a contrappunti crepuscolari e
misantropi (più che una debolezza, una sorta di condanna ammanta la dipendenza
di Whitaker), ad accenni melo' (il trascinarsi dei suoi attriti familiari), si
affiancano, infatti, svolte sbrigative o protratti indugi, e numerose
suggestioni accarezzate sono lasciate a meta' o fatte del tutto cadere (il
rapporto "a perdere" con Nicole, il personaggio della Reilly, troncato
pressoché di netto), fino a spingere l'inerzia dell'intero racconto entro le
strutture rigide delle procedure legali e del dibattimento.
Washington - manco a dirlo, candidato di nuovo all'Oscar - rallentato e
imbolsito, tratteggia un personaggio scostante con dimessa indolenza e
malcelata perplessità, tenendolo insieme con un campionario limitato di
variazioni (per lui) elementari e un tanto ovvie (per noi), e disponendolo
senza troppe ritrosie a quel paio di acrobazie sul genere
ravvedimento/espiazione che la sceneggiatura gli/(ci) riserva per il finale.
John Goodman si ritaglia due apparizioni a meta' fra amico fidato e risolutore-
di-problemi di tarantiniana memoria.
TFK