All’uscita dal funerale Stefano si diresse con i ragazzi allo studio del professore, ancora non sapevano come sarebbe andata a finire per la mostra che stavano allestendo, tutte le opere andavano catalogate e di ciò si sarebbero preoccupati i famigliari dell’artista. Claudio gli ripeteva di non starsene lontano, che poteva considerarsi dell’entourage, poiché era un ex allievo, ma Stefano si sentiva a pezzi. Non era stata la vista del cadavere, il vecchio pareva beffardo pure da morto, anche se la vedova mormorava che aveva il sorriso beato dei giusti. Stefano era nauseato: più lo guardava più gli si torceva lo stomaco, aveva una gran voglia di mandare affanculo tutti, di dirgliene quattro per non aver insistito a tenerlo con sé. Era questo che gli attanagliava le viscere, l’idea che avesse visto in lui del talento e l’avesse lasciato scappare.
In quel momento, aggirandosi nello studio luminoso del professore, Stefano osservava gli amici e sapeva in cuor suo che nessuno di loro possedeva le sue capacità. Claudio era un raccomandato, stava lì solo perché il padre era stato compagno di studi del professore, Luna non era da considerare perché, come donna, non avrebbe mai potuto accedere all’Olimpo. Marcello pensava più all’apparenza ma, di fatto, disegnava da liceale, mentre Antonio era meglio se avesse intrapreso la carriera musicale. Fabio e Giuliana avevano molte idee ma erano primitivi nel tratto, nel senso che per essere alla Transavanguardia avrebbe dovuto saper fare un disegno decente prima di trascendere, invece calcavano la mano proprio sulle loro debolezze stilistiche. Giorgio pensava solo alle teorie, Stefano non ricordava di averlo mai visto al cavalletto mentre Giovanna… oddio quella faceva acquerelli!
Non sporcarsi le mani era impensabile, assolutamente idiota!
Quasi sovrappensiero mise una tela bianca di medie dimensioni sul tavolo da lavoro, prese una piccola spatola e ci lavorò il primo colore a olio che trovò, si trattava di un’ocra quasi sanguigna. Senza esitare spalmò di colore la superficie ruvida ed immacolata, e brandendo il retro di un pennello prese a lavorare il colore sulla tela. Là dove toglieva era una linea, dove lo spalmava era una sfumatura. Cercò tra le cianfrusaglie sul tavolo, spremette un bianco di titanio quasi finito, ci rovesciò sopra l’essenza di trementina che evaporò dalle sue dita calde. Uno straccio tamponò il disastro e riprese a lavorare usando la piccola spatola, introdusse del nero per mettere in evidenza le forme del viso scarno e segnato, il rosso per l’espressione seria e severa, il cipiglio che, adesso se ne rendeva conto, era solamente un atteggiamento.
Usò le dita e le unghie, accarezzando quel viso per dargli vita, una maschera color terra che ora lo fissava. Un colpo di spatola tolse colore e rese perfettamente quella piega sulla guancia, quella linea beffarda che la morte non era riuscita togliergli e, alla fine, come spregio finale, Stefano delineò a memoria lo sfondo dell’aula. La scala, le finestre alte e i gradini per raggiungerle, le inferriate, il soffitto a volto di quella che era stata una scuderia del Seicento, nel palazzo di Brera. I neon al soffitto, i cavi simili a tele di ragno, ogni particolare che per LUI era stato così importante e che per Stefano faceva perdere l’essenza del disegno… eccolo là.
Finito l’attacco, spinse indietro la tela, sentendo di essersi sfogato, finalmente.
Si riscosse e si accorse della presenza degli altri, alle sue spalle, sembrava che addirittura trattenessero il fiato. All’improvviso imbarazzato e come colto in flagrante, Stefano si pulì le mani nello straccio, cercando le parole per giustificarsi. Vide Claudio fissarlo con rammarico e astio: «Sei un coglione, Sté, arrivi sempre in ritardo…», e Antonio annuì guardandolo con occhi ammirati.
«Sei da fare invidia e non te ne frega un cazzo!», lo rimproverò Giorgio dandogli uno scapaccione, mentre le ragazze scuotevano il capo quasi disgustate.
Confuso, cercò di liberarsi dalla loro presenza, ma la vedova vide il dipinto: «Chi lo ha fatto?! », disse facendosi largo. Stefano abbassò il capo: «Mi scusi, forse non avrei dovuto usare gli strumenti di suo marito.»
«Macché, riconosco la vera ispirazione. Questo ritratto di Caustico è così veritiero che ti chiedo di vendermelo.», disse risoluta.
«Caustico?», domandarono in coro alcuni.
La signora rise: «Era il suo soprannome, in famiglia lo chiamavamo così, Caustico. E tu, ragazzo, hai preso in pieno la sua espressione. Lo voglio questo dipinto, quanto costa?»
Stefano guardò gli altri, confuso: «Veramente… Non costa niente.»
«Figurarsi! È il tuo lavoro e Caustico l’avrebbe adorato. Era annoiato dai leccaculo privi di franchezza e si lamentava sempre della mancanza di sincerità. Ecco il tuo ritratto è schietto, rappresenta tutto ciò che in lui mi faceva arrabbiare, eppure è il più vero dei ritratti. Come ti chiami, non ti ho mai visto qui o a casa.»
Arrossendo suo malgrado, Stefano abbassò la testa: «E’ un regalo, signora. Non ero nessuno per suo marito.», disse voltando le spalle al gruppo, diretto all’uscita.
«Hai disegnato tutto lo sfondo, però. Questo ti smentisce.», affermò la donna, risoluta.
Stefano si fermò in una macchia di sole, voltò la testa e la guardò: uno scricciolo in nero con occhi d’acciaio che stridevano con l’aspetto fragile. Una donna che aveva sopportato ma che non era scappata davanti a quel Caustico che cercava di distruggerla.
Una che se ne sbatteva dello sfondo… lei stessa sfondo ormai senza soggetto.
Stefano la raggiunse con due passi e le baciò la guancia ossuta: «Il quadro è suo!», poi s’involò verso la porta, scomparendo alla vista. Una volta in strada raggiunse il Bar Giamaica e rifugiandosi nella sua penombra ordinò un Campari, e poi un altro, e un altro ancora…
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