Mio figlio mi ha chiesto di insegnargli a giocare a calcio. Fino alla settimana scorsa era disinteressato al calcio, poi la settimana scorsa si è imbattuto in una partita di pallone tra ragazzini più grandi di lui, si è buttato nella mischia, con risultati sconfortanti, ha litigato con gli altri ragazzini che non lo volevano far giocare a causa della sua totale ignoranza delle regole del gioco. Al ritorno a casa, punto nell’orgoglio, ha voluto che gli insegnassi i fondamentali del gioco. Come tutti i bambini che si interrogano sui fatti adoperando una logica accanita, la regola che trova più assurda di tutte è il divieto di toccare la palla con le mani. Per due giorni si è impegnato allo spasimo, nonostante questo credo che il calcio continui a interessarlo poco e niente.
Sto leggendo La vita è un pallone rotondo, di Vladimir Dimitrijevic (Adelphi, traduzione di Marco Bevilacqua). Ci si trovano dentro delle autentiche gemme. In un capitolo intitolato Sfiorare i tacchetti di una scarpetta agognata c’è scritto:
I primi passi erano incerti come quelli delle ragazzine che provano per la prima volta le scarpe coi tacchi alti della mamma. Ci reggiamo a stento, barcolliamo. Come i puledri e i vitelli che, appena nati, provano a tenersi in piedi. Per tutti questi gesti di commovente innocenza, sarò eternamente riconoscente a Dio che ci ispira la giusta misura.
E in un altro, dal titolo L’aristocrazia e la nobiltà di gamba:
Il calcio non è aristocrazia, è nobiltà. Vi è in esso un’uguaglianza che non esiterei a definire cristiana. Mi spiego: non esiste un modello di giocatore ideale. Tutti i calciatori eccezionali trasformano un palese difetto in una qualità sublime. Alcuni hanno le gambe storte, altri si muovono come dei panda, ma subito, non appena entrano in possesso della palla, attorno a loro tutto diventa fluido. Pensiamo ai lazzi che suscitava l’albatro di una celebre poesia.