"Se hai successo, se vivi un incredibile momento di felicità, quella felicità è più grande e profonda se la condividi con gli altri. Se ci arrivi insieme a qualcuno, quel sentimento di felicità sembra esplodere. E' raddoppiato. E' questo l'importante."
Massimo Bottura.
La mia passione per il cibo non è mai stata un mistero: grazie ai miei genitori sono cresciuta tra alberghi e ristoranti di alto livello (no, non siamo una famiglia di ricconi, era per lavoro), ho imparato troppo presto a riconoscere il vino di qualità, il cibo che ti fa commuovere.
E crescendo questa passione l'ho portata avanti.
Io e Gianni non andiamo mai a mangiare fuori, ce lo concediamo una o al massimo due volte all'anno di pranzare in un ristorante costoso, ci regaliamo un'esperienza memorabile di alta cucina che ci porteremo nel cuore e nella memoria per sempre.
Con l'arrivo di Netflix, la prima cosa che abbiamo guardato è stato Chef's table: dei -meravigliosi- documentari su chef stellati e di alto livello che hanno scelto strade rivoluzionarie.
Il primo era su Massimo Bottura, una delle divinità della cucina stellata che ha avuto la lungimiranza, la tenacia (e la moglie) per creare un piccolo mondo dietro la porta dell'Osteria francescana. Andare lì, è il mio sogno.
Assaggiare un piatto che metta insieme 5 stagionature di parmigiano mi fa venire la pelle d'oca al solo pensiero: e non è solo una questione artistica, è una profonda cultura e un rispetto quasi maniacale per il cibo.
Alla fine del documentario sarete innamorati di lui e della moglie e l'unica cosa di cui vi verrà voglia sarà sedervi al tavolo con loro, ascoltarli parlare, stappare una buona bottiglia di vino.
Il mio primo pensiero è stato scrivere un post su di lui, la sua passione, la creatività senza limiti, la follia, l'amore sconfinato con la moglie che è anche -incredibilmente- partner lavorativa perfetta. Poi ho guardato il secondo capitolo della saga, il mio pensiero -adorazione per gli chef [e il mio post] hanno preso una brusca virata.
Il secondo ambizioso protagonista era Dan Barber, principalmente chef del Blue Hill a Manatthan e "coltivatore" di roba biologica, allevatore di mucche sane.
A guardare questo secondo documentario dopo Bottura, mi è venuto da ridere, e poi da piangere.
La magia della sua cucina e la rivoluzione di quello che porta in tavola [semplifico brutalmente, ovvio che non è solo questo] è il produrre e far mangiare "pomodori che sanno di pomodori".
Coreografica e bella la cruditè infilzata su una specie di rastrelliera, ma se in un mega ristorante mi portano 3 "carote che sanno di carote", io potrei davvero avere un crollo istantaneo della mascella.
Bottura parlava di creatività, genio, tradizione, pasta fatta a mano: Barber raccontava quanto fosse incredibile avere dei ravanelli che avessero sapore.
Questo è il punto.
Questo è quello di cui si deve parlare, questo era uno dei punti su cui doveva lavorare Expo, non sulle strutture spettacolari.
Dopo aver guardato Food Inc. (documentario che vi consiglio caldamente), ogni volta che vado negli Stati Uniti guardo tutto il cibo con un certo sospetto: finchè mangi per un mese è ok, ma a lunga distanza? A quale livello di produzione sconclusionata siamo arrivati?
E senza andare dall'altra parte del pianeta, le nostre verdure da quali campi vengono? La terra dei fuochi è il centro delle coltivazioni che poi diventano broccoli surgelati low cost?
Queste riflessioni a parte dai documentari sono emerse guardando le file di EXPO, dove tutti nell'ultimo mese si sono messi in fila per "guardare i padiglioni": ma avete capito il senso della questione?
Nutrire il pianeta, nutrire noi stessi.
In una giornata come oggi in cui non sentiamo altro che notizie che riguardano il maiale cancerogeno, e la zucchina atomica la mia riflessione finisce qui, sul cibo che è arte, sul cibo che non ha più sapore.
A me, che ero abituata a mangiare le carote dall'orto scrollate dalla terra e poco più, tutto questo spaventa parecchio, visto che non ho 80 anni e non sono nata 25 generazioni fa.
Dove cavolo stiamo andando a finire?