I fatti che scuotono l’Italia in questi giorni, visti dall’estero, suscitano qualche riflessione. Non solo per le proteste che causano disagi ovunque. Due provvedimenti della «Legge di stabilità,» promulgata ogni anno e contenente le disposizioni per la compilazione del bilancio dello Stato, fanno udire una strana consonanza con le proteste di strada.
Nelle settimane scorse, il capo del Governo italiano si è indaffarato a promuovere un piano denominato «Destinazione Italia,» con l’obiettivo di attrarre verso Roma imprese e capitali stranieri. Tra le molte disposizioni della Legge di stabilità, ve ne è una che ha fatto rapidamente parlare di sé nel mondo: l’introduzione dell’obbligo, per le imprese attive in Internet (si parla per il momento dei grandi operatori pubblicitari digitali e di commercio elettronico: Google, Facebook, Amazon), di dotarsi di una partita IVA italiana per vendere i loro servizi in Italia. Non sarà più sufficiente, per queste società, avere una sede nell’Unione europea, dalla quale servire tutto il continente: l’Italia, da sola, obbliga ora queste società a erigere una stabile organizzazione sul proprio territorio.
Agli occhi di chi guarda all’Italia dall’esterno, questo provvedimento ha distrutto la già debole credibilità dell’annunciato piano «Destinazione Italia.» Particolarmente negli Stati uniti, dove il piano era stato presentato personalmente da Enrico Letta, l’introduzione dell’obbligo di partita IVA per le società digitali straniere ha suscitato forti reazioni negative, proprio negli ambienti economici che si intenderebbe invece incoraggiare a investire nella Penisola.
Le imprese digitali operano in uno spazio globale, la rete Internet. E’ comprensibile che a uno Stato dispiaccia perdere gli introiti da imposte sui consumi derivanti da queste attività. Il problema esiste. Fa stare a bocca aperta, però, che non si trovi altra soluzione che tornare all’età della pietra: dividere solitariamente la Rete in una giurisdizione fiscale nazionale, quando ne esisterebbe una molto più adeguata, quella dell’Unione europea. Anziché camminare all’indietro, il problema andrebbe risolto alla radice, guardando al futuro.
Innanzitutto, creando le condizioni affinché le grandi imprese digitali trovino interessante insediarsi in Italia spontaneamente, senza obbligarle per decreto. Ecco che tutte le imposte sarebbero automaticamente pagate in Italia. Perché Google, Facebook e società analoghe hanno le loro sedi europee in Irlanda, Lussemburgo, Svizzera? Per pagare meno tasse? No, o meglio, non solo. Perché in questi Paesi trovano una burocrazia leggera e funzionante, un diritto certo, governi credibili e legislazioni stabili, reti informatiche e clima di lavoro all’altezza dei tempi. Se solo fosse un po’ più moderna ed efficiente, l’Italia sarebbe la sede ideale per tante imprese globali che forse sarebbero disposte a pagare qualche punto in più di imposte, ma nella Penisola avrebbero una testa di ponte anche per tutta l’Europa meridionale e il Mediterraneo. Ci arriverebbero da sole, senza bisogno di essere obbligate per legge ad aprire partita IVA e a sottomettersi ai bizantinismi amministrativi italiani.
L’altro aspetto riguarda proprio l’IVA, l’imposta che maggiormente sfugge – legalmente – al controllo dei singoli Stati, nelle transazioni digitali. Il problema non si risolve tornando a restringere la competenza sul territorio nazionale, ma lavorando per creare una vera giurisdizione IVA europea, che sinora è una chimera, rimpiazzata dall’astruso meccanismo del reverse charge. L’Unione europea è uno spazio di 28 Paesi senza barriere commerciali, la circolazione di persone, merci e servizi non ha più frontiere, ma l’IVA continua a essere regolata su base nazionale. Certamente, gli ostacoli per trasformarla in una vera imposta continentale ci sono: adeguare le aliquote, innanzitutto, istituire procedure unificate, commisurare le ripartizioni degli introiti sui vari Stati, e tanto altro. Sarebbe molto meglio, però, fare un passo avanti verso questo obiettivo, anziché aggrapparsi a giurisdizioni nazionali che non sono più gestibili in un contesto globale, immaginarsi nel mondo digitale.
Il provvedimento non è solo stato spiegato con il desiderio di incassare più imposte, ma è stato giustificato da molti operatori del settore (che probabilmente lo hanno richiesto) come difesa delle imprese italiane dalla concorrenza straniera. Traduzione: un’azienda globale opera in Italia attraverso una filiale in Irlanda. E’ vero, ha un vantaggio competitivo rispetto alle aziende italiane. Le aziende italiane, però, in cambio hanno lo stesso diritto di operare sui mercati di tutto il mondo e di vendervi i loro prodotti. Il problema è che non sanno farlo, o lo fanno meno bene degli altri, per la nota impreparazione culturale di gran parte degli imprenditori italiani rispetto all’esportazione. Soluzione: anziché provare a crescere e a cogliere le opportunità dei nuovi mercati, rendiamo la vita difficile agli stranieri, restiamo fra di noi.
Un altro provvedimento riguarda la detraibilità fiscale degli acquisti di libri: le famiglie italiane potranno scaricare dalle imposte un certo ammontare speso per l’acquisto di libri cartacei, ma non di libri elettronici (i sempre più diffusi e-book). Anche qui, è presumibile che dietro questo provvedimento vi siano gli ambienti dell’editoria italiana, che non è ancora riuscita a digerire la trasformazione portata dalle nuove tecnologie. Gli e-book fanno ridurre le vendite dei libri di carta? Anziché cercare di imparare come usare i supporti elettronici per guadagnarci tanto e più di prima, penalizziamoli. Di nuovo: nascondiamo il problema, invece di affrontarlo e risolverlo. Nella stessa direzione, lo scoraggiamento dell’uso delle nuove tecnologie, vanno diversi altri piccoli provvedimenti inclusi nella legge, passati generalmente sotto silenzio.
Ecco perché queste sono leggi da perdenti. Si alza bandiera bianca di fronte alle sfide delle nuove tecnologie e alle opportunità dei nuovi mercati. Ci si ritira nel ridotto nazionale, perché non si ha l’autorevolezza di perseguire obiettivi comuni nelle sedi internazionali.
Eccola, la strana consonanza con i movimenti di protesta che bloccano auto e treni in tutta Italia. Molti affermano che questi movimenti «non si capisce cosa vogliono.» Chi scrive pensa, in realtà, di averlo capito, o almeno di aver compreso una cosa che li accomuna, nella confusione.
Coloro che protestano vogliono tutti la stessa cosa: l’autarchia. Via da tutto ciò che ci obbliga a confrontarci con gli standard internazionali: basta euro, Unione europea, basta frontiere aperte, nuove tecnologie, libertà di commerci. Non siamo capaci, vogliamo stare fra noi. Contadini che non vogliono la concorrenza dei prodotti europei: sanno che in cambio potrebbero vendere le loro arance in 28 Paesi senza ostacoli? No, o, se lo sanno, forse non sono capaci di farlo. Imprenditori che non ricevono fidi dalle banche: ma cosa ne farebbero? Tappano i buchi, vanno avanti due mesi e poi ne chiedono altri, oppure li usano per investire su nuovi mercati di sviluppo? Mi ha colpito, nei giorni scorsi, un’intervista a un giovane dimostrante, che affermava: «Ho una laurea in giurisprudenza e non trovo lavoro, perché l’Italia ha una moneta che non rispecchia la sua economia» (l’euro). Un laureato in giurisprudenza che fa un ragionamento così, è comprensibile che non trovi un lavoro corrispondente al suo titolo. E’ spiacevole che un laureato (ma anche un diplomato o un licenziato di scuola dell’obbligo) non trovino lavoro, ma le loro qualificazioni corrispondono alle sfide del mondo di oggi? Domande aperte.
L’idea che se ne ricava è di una grande fiera di perdenti, in un inedito asse tra urlatori senza proposte e provvedimenti governativi di ispirazione quanto meno dubbia, rivolti a un passato che comunque non tornerà più. Peccato, perché in Italia i problemi esistono, di ragioni di protesta – se proprio ci si tiene, a protestare – ce ne sarebbero, purché accompagnate da proposte costruttive. Invece, tutto si confonde nelle urla e nella paura di chi batte in ritirata di fronte al mondo che cambia. Ogni cambiamento epocale lascia sul terreno dei perdenti: li si può capire e aiutare, se non trasformano la loro delusione in violenza. I provvedimenti dei Governi, però, dovrebbero guardare avanti. Altrimenti il treno lo perdono tutti, anche quelli che lavorano in silenzio e con successo, che in Italia pur ci sono.
©2013 >Luca Lovisolo
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