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Forconi: l’equivoco del ribellismo

Creato il 25 gennaio 2012 da Casarrubea
Forconi: l’equivoco del ribellismo

Indignados a Wall Street 2011

Quello che è successo e continua a succedere in Italia sta sovvertendo le coordinate alle quali eravamo stati abituati nella nostra formazione politica e culturale. A prescindere dall’appartenenza, molti di noi ricordano ancora quando nelle sedi di partito o di sindacato, a destra, come a sinistra, i riferimenti ad alcuni capisaldi dell’andamento delle cose nel mondo e nel nostro Paese, fossero dettati in modo chiaro già dall’inizio degli incontri. Erano schematici quei relatori, spesso facevano valutazioni errate. Ma orientavano gli intervenuti e poi, alla fine, qualcuno o in molti, uscivano da quelle “scuole di formazione” più motivati, più ricchi o più incazzati. L’umore era segnato dalla sensibilità personale e il comportamento restava dentro i limiti di certe regole interne.  

Nella mia esperienza di ragazzo, ad esempio, ci sono i ricordi degli incontri tenuti nella sezione del Pci di Partinico o presso la federazione di Palermo, con Achille Occhetto, Pio La Torre, Giorgio Napolitano, Pietro Folena o quegli altri che la Cgil o la Confederazione italiana degli agricoltori promuovevano nelle loro sedi, per dare acqua alle campagne, avviare battaglie per lo sviluppo, non ultime quelle che Danilo Dolci metteva ogni giorno in cantiere per cambiare le sorti della nostra terra. Erano lotte di contadini e di edili, di insegnanti e di disoccupati, di braccianti e piccoli o medi proprietari terrieri. Tutti interessati a rivendicare migliori condizioni di vita nelle campagne e nelle città, a non chiudersi nelle difese corporative, a non restringere, indossando paraocchi, il campo della prospettiva, della osservazione delle cose.

Poi, da una ventina d’anni a questa parte, i partiti sono entrati in crisi; i sindacati hanno cominciato ad essere meno rappresentativi degli interessi dei lavoratori e progressivamente allo sfilacciamento della tenuta dei gruppi dirigenti, si è unito uno svuotamento collettivo dei valori tradizionali. Si è andata maturando l’idea dell’equivalenza di uomini e cose ed è subentrata, subdola e imperdonabile, una nuova morale. Quella dell’egoismo come unico metro di valutazione. Così, al senso del collettivo è subentrato quello del privato, all’idea del bene comune quella della corporazione.

Ci sono state crisi altrettanto gravi nella storia dell’Italia unita. Non mi dilungo neanche ad accennarle. Basti pensare alla recessione degli anni ’70, quando disoccupazione e inflazione salirono vertiginosamente, e con la nascita del cartello dell’Opec il prezzo del petrolio quadruplicò. Ma gli italiani sono usciti sempre a testa alta dai momenti difficili, stringendo la cinghia dei pantaloni. Come diceva Enrico Berlinguer, oggi mandato in soffitta assieme ad altri grandi come Giuseppe Di Vittorio. E tutto questo non è privo di effetti.

I movimenti a cui assistiamo, generati dalle viscere più oscure della crisi globale che attanaglia anche l’Italia e in modo particolare la Sicilia e il Mezzogiorno, sono un magma incandescente che scorre a valle, bruciando, più di quanto non sia ancora accaduto, ciò che la stessa virulenza della recessione ha lasciato in piedi. La speranza, il galantomismo, il volontariato, la motivazione e la fiducia in un mondo migliore, l’unità di tutti per salvare il salvabile. In questo clima regna sovrana la confusione. Qui si incrociano falsi interpreti del marxismo con ideologi gruppettari del neofascismo, sostenitori di Adam Smith e keynesiani. C’è chi vede risorgere i fantasmi del ventennio e chi si richiama a Gramsci come anticipatore di ciò che sta accadendo.

Noi, senza bisogno di scomodare a sproposito nessuno né, tanto meno, Marx, facciamo una riflessione più terra terra. Sotto i nostri occhi c’è l’insufficienza della politica e del consenso sindacale. C’è la disperazione di chi non ne può più. Ma attenzione agli improvvisati Masaniello, già falliti in politica, e a quel pugno di potenti che fino a dicembre, e cioè fino alla caduta del governo Berlusconi, se ne stavano tranquilli ad aspettare o a preparare la tempesta. Tra costoro e i pacifici indignados c’è una bella differenza. Se capissero solo questo penserebbero di più e si agiterebbero di meno.


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