Magazine Diario personale

Forever

Da Matteotelara

qamu74_feb_08_father_and_son_by_qamu74-d4p1hx5

La sveglia a sensori mi dà l’ultimo avvertimento che è arrivata l’ora di scendere dal letto. In realtà io lo so già da un po’, o meglio, una parte del mio corpo ha cominciato a saperlo già da un pezzo che quell’ora stava per arrivare. La sveglia è stata programmata per rilasciare avvisi sonori a frequenze bassissime, in maniera da assicurarsi che il mio risveglio sia piacevole e il più possibile privo di traumi. Il. Più. Possibile. Tre parole che troverete scritte ovunque. Non c’è azienda che possa assicurare una riuscita del 100% in questo genere di faccende: troppi elementi non prevedibili, e un fronte illimitato di avvocati pronti a tirar giù pezzo dopo pezzo anche la più costosa sede della Valley, in caso un numero sufficientemente alto di consumatori sia insoddisfatto dell’applicazione appena scaricata sul proprio sistema di sveglia a sensori. Le tapparelle della camera si sono aperte gradualmente con la lentezza studiata di chi non vuole che il sole impatti direttamente sulle proprie palpebre. Gli avvisi sonori sono andati dolcemente sfumando in musica. La temperatura della stanza è risalita fino a raggiungere i venticinque gradi programmati. Lascio il letto, attraverso il corridoio, ovunque cammino una luce soffusa anticipa l’arrivo dei miei passi. In bagno premo con l’indice sull’angolo in basso dello specchio e fisso per un istante il riquadro comparso al suo interno.
“Buongiorno” mi dice lo specchio. “Il tuo livello di liquidi è al di sotto del tuo fabbisogno medio. Non hai bevuto un bicchiere d’acqua durante la notte?”
“Nessuno mi ha detto di farlo”.
Lo specchio tace.
“Non preoccuparti” dico, “ho programmato io SD per non disturbarmi mentre dormo”.
SD è un acronimo per Safe Dreams, un nome che non sono stato io a scegliere anche se non escludo di aver contribuito in qualche maniera a farne sviluppare l’applicazione: è un ottimo acronimo. Ha tutta la brevità dei marchi vincenti e il significato dei prodotti che riescono a garantire quasi sempre una buona riuscita. Sogni tranquilli: non è forse quello che ognuno di noi vorrebbe avere per il resto della propria vita?
Mi sposto in cucina. I dati rinvenuti sul mio dito quando ho toccato lo specchio sono già stati comunicati al frigorifero. Nel momento in cui mi ci trovo davanti è comparso sul portellone un elenco dei dieci alimenti che mi sono stati consigliati per la giornata. Oramai lo faccio senza pensarci: leggere la lista, aprire il frigorifero, prendere gli alimenti. Sono cresciuto così. E sono cresciuto bene.
Mangio quel che Nature mi dice di mangiare. Nature consiglia, io eseguo. Mi fido di Nature. Mi fido di un nome che ancora una volta non sono stato io a scegliere. Nature è il padre di tutti i nomi, meglio ancora di Safe Dreams. Lo pronunci e già lo possiedi nella sua interezza. Nessun bisogno di acronimi. Nessuna necessità di spiegazioni. Nature calcola ogni mattina una dieta appositamente studiata in base a quello che sa di me: i miei impegni, il mio carattere, il mio stato d’animo, la salute di cui godo, la maniera in cui ho passato la settimana, i miei ritmi di vita e i miei gusti alimentari; ogni giorno, nel momento in cui raggiungo il frigorifero, Nature mi dice cosa mangiare e cosa no, calcola cosa sta finendo e cosa manca, e provvede a inviare al magazzino NF di NatureFood un ordine che sarà poi depositato all’interno del contenitore Nature situato all’entrata di casa mia. Tutto quello che dovrò fare io al mio ritorno sarà trasferire gli alimenti negli appositi compartimenti e lasciare che al resto pensi il frigorifero: le avvertenze per l’uso, le date di scadenza, le temperature di conservazione.
Nature è stato un grande passo avanti nella gestione del futuro degli individui e della società. Ma anche Nature non può garantire una percentuale di riuscita del 100% perché il mondo è pieno di assicurazioni sulla salute pronte a dimostrare che è stata un’anomalia della vostra dieta a causare l’insorgere di quel vostro tumore all’intestino. Non esistono applicazioni per la cura dei tumori. E nessuna terapia, neppure la più sofisticata, che possa garantirvi una piena riuscita. Vivo nella civiltà del 99%, che poi diventa quella dell’1% se consideriamo la percentuale di popolazione che può permettersi Nature al posto di LH – Live Healthy – una delle versioni a basso prezzo di cui fanno largo uso nelle zone più povere del pianeta. Corriamo tutti verso la medesima conclusione in fin dei conti. È a questo che sto lavorando negli ultimi anni: finiamo tutti per morire giusto?
Controllo l’orologio. Lo chiamo ancora così, con un anacronismo scelto apposta per ricordarmi che è col tempo che abbiamo sempre a che vedere: l’orologio, come le lenti a contatto con cui adesso lo sto osservando, sta sempre con me, registra quello che dico e che faccio, è in grado di affiancare una mia frase ad uno stato d’animo, un’azione ai miei battiti cardiaci, un silenzio alla mia pressione sanguigna. Dove sono andato oggi? Come ho reagito alla notizia che ho letto? Di cosa ho parlato con la mia ex moglie? Che consigli ho dato a mio figlio? L’orologio e le lenti sanno cose su di me di cui nessun altro tranne l’orologio e le lenti è al corrente: cose che hanno a che vedere con la mia personalità e coi lati meno evidenti del mio carattere, con quello che mi è successo in passato e con la maniera in cui reagirei se qualcosa d’inaspettato mi accadesse in futuro. Non c’è bisogno di parlare all’orologio e alle lenti perché facciano quello che devono fare. Sanno già tutto quello che devono sapere e il resto lo imparano giorno dopo giorno semplicemente standomi addosso.
La sera, mentre dormo, l’orologio e le lenti continuano a registrare quello che succede e intanto scaricano le informazioni accumulate durante la giornata in un elaboratore che poi provvederà a farle interagire con quelle già acquisite: un sistema a rete neurale simile al nostro cervello. Miliardi d’informazioni. Un unico collettore.
Salgo in macchina. Non dico nulla. Il motore si accende. La macchina si muove da sola. Resto seduto a occhi socchiusi a riflettere. Questo, il riflettere, è qualcosa che né l’orologio né le lenti possono registrare direttamente. Quello che al momento stanno registrando è dell’altro: il mio umore, il mio comportamento, il luogo dove sto andando, il silenzio che mi avvolge e le frasi che pronuncierò quando ricomincerò a parlare. Sarà poi l’intreccio dei dati in fase di rielaborazione a rivelare come sto e come ho passato la giornata.
Per ora io attendo ancora un istante, poi riapro gli occhi, mi schiarisco la voce e chiedo al tablet l’accensione dello Schermo.
Compare mio padre. È un volto molto realistico – la maniera in cui lo ricordo prima che si ammalasse – ma un domani sarà possibile scegliere tra tre versioni differenti: il solo volto, la sola voce, l’ologramma.
“Bé” dice, “cos’è quella faccia?”
“Quale faccia?”
“La faccia che hai stamattina, non ha dormito bene?”
“Non ho bevuto abbastanza” rispondo, i palmi delle mani che cominciano a sudarmi, “e poi è lunedì”
“Già” dice lui, “oggi è il gran giorno, oggi valuteranno i progressi che sono stati fatti col tuo progetto”.
Annuisco. Il programma può vedere se annuisco o meno. Intanto, però, dentro mi sto dicendo che devo far risultare la cosa meno meccanica: i dati registrati dallo specchio quando l’ho toccato sono stati trasferiti in tempo reale anche allo Schermo, ecco come ha fatto a chiedermi della mia faccia. Sapeva della mia faccia prima ancora di vederla. ‘Far risultare la cosa meno meccanica’ mi appunto nella mente. Ma al tempo stesso penso anche che si tratta di modifiche future, varianti che arriveranno dopo, con le versioni successive a quella a cui al momento sto lavorando. L’unica cosa che davvero conta adesso è che ho davanti mio padre e che gli sto parlando. Che ascolto la sua voce. Che riconosco la sua faccia.
“Da ragazzino avevi lo stesso problema” mi dice. “A scuola, prima di un esame, cominciavi a sudare e diventavi rigido come una barra di metallo. Poi però prendevi sempre il massimo dei voti. Ti ricordi quando andammo a fare quella passeggiata al parco?”
Fu per il mio primo esame all’università: portammo da mangiare agli scoiattoli e restammo a lungo in silenzio a guardarli rosicchiare le ghiande. Ricordo il cielo di un grigio uniforme, gli alberi spogli, distese di foglie arricciate ad accompagnare i nostri passi…
“Andrà tutto bene” sento mio padre dire.
Io scuoto la testa. Disse così anche allora. Poi però aggiunse che dipendeva da me. E che qualunque cosa gli altri ci dicessero alla fine eravamo noi, noi con le nostre scelte, a decidere del nostro destino. La sua solita maniera d’insegnarti qualcosa dandoti l’impressione d’essere stato tu a impararla. “Vorrei esserne sicuro quanto te” mugugno, ma la verità è che l’averglielo sentito dire ha già contribuito a sciogliere di un po’ quella barra di metallo che mi si stava formando dentro.
Torno a guardare al di là del finestrino. Mio padre non aggiunge più nulla. Continuiamo a fissare entrambi la strada senza parlare.
L’ho chiamato progetto Forever, ed è nato così: nei mesi successivi alla morte di mio padre, mentre le aziende della Valley continuavano a sfornare un’applicazione dietro l’altra e io sentivo crescere in me l’inutilità di quello che mi circondava.
“È perché malgrado tutte le tecnologie di questo mondo” sentii qualcuno dire nei momenti immediatamente successivi alla cremazione, “sono le persone a dare significato alle cose”. E mi era venuto da pensare ai miliardi d’informazioni che si stavano proprio in quell’istante riducendo in cenere: avere per sempre accanto a sé i propri cari avevo riflettuto, non smettere mai di poterci parlare e di poterli ascoltare.
Nacque prima lo Schermo.
Poi l’orologio.
Poi le lenti.
Poi l’elaboratore dei dati.
Poi il principio che li metteva in connessione rendendoli una cosa sola.
Infine il nome. Forever. E l’idea che tutto quello che un giorno avremmo visto sullo Schermo sarebbe equivalso a ciò che l’orologio e le lenti avevano registrato durante la vita di chi li aveva indossati. Sarebbero stati quella persona. La persona che non doveva esserci più.
Guardo nuovamente mio padre. È solo un prototipo, al momento; un modello a partire dal quale tutti gli altri dovranno svilupparsi. Sono stato io a immettere i dati su cui si basa il suo interagire, la sua voce e i suoi tratti somatici, i suoi giudizi sulle cose, i suoi appunti, le decine di filmati che lo ritraevano e i ricordi e le opinioni che su di lui avevano coloro con cui era entrato in contatto: il lavoro che faceva, i luoghi che frequentava, i vestiti che indossava, i film che preferiva, la musica che ascoltava, come passava il tempo e dove andava in vacanza.
Forever è diventato il più grande progetto per applicazioni a cui un essere umano avesse mai lavorato. Rendere un altro uomo eterno. Fare del suo passaggio sulla Terra un presente continuo.
Domani ogni schermo di questo pianeta continuerà a immagazzinare informazioni giorno dopo giorno in tempo reale, rielaborando e reagendo agli eventi della quotidianità come avrebbe fatto ogni volta la persona che l’ha reso possibile: piangerà, riderà, leggerà, vi darà consigli. E lo farà con una percentuale d’esattezza del 100%. Nessuno sarà mai in grado di contestare qualcosa che è stato detto o fatto da un’altra persona: siano esseri prevedibili, in fin dei conti, ma siamo anche capaci di grandissime contraddizioni. Quel margine d’errore che altrove costituisce una prova d’imperfezione, è divenuto in questo caso una garanzia d’autenticità. Coi miei superiori, quando presentai il progetto, usai un’altra parola: definii l’intera questione quello che, in ultimo, rende Schermo “umano”.
“Hai la testa altrove” dice mio padre, “si può sapere a cosa stai pensando? Qualunque sia il progetto a cui stai lavorando, adesso non ci devi pensare”.
“In realtà non sto pensando a niente” rispondo. Ma non è vero. È alle scelte che la vita ti costringe a fare dal momento in cui qualcuno decide di metterti al mondo e poi di continuare a fartici stare, che sto pensando. Fino a quando tocca a te cominciare a decidere. Lui con me quarant’anni fa. Io adesso con lui.
Sorride. Non ho bisogno di guardarlo per sapere che lo sta facendo. Ha sempre emesso una sorta di sussurro, prima di sorridere, un soffio caldo e muto che anticipava la mimica facciale rendendola ogni volta inconfondibile. È lui. Non fossi stato io a immettere i dati nel Programma Forever giurerei, con la leggerezza che tanto invidio alle persone che usano una cosa senza domandarsi troppo come funziona, che quello che ho davanti è mio padre.
“Non ci credo che non pensi a niente” dice infatti. “Il niente non può essere pensato”. Eccolo qua, il professore di filosofia che si è messo a parlare per un momento insieme al genitore. “Per noi occidentali, soprattutto, il vuoto non può esistere”.
“Lo so” annuisco.
“Però esiste” dice lui.
L’orologio sta registrando il mio silenzio. L’auto ha appena parcheggiato di fronte all’entrata dell’azienda. Il motore si è spento. Sento il clack della portiera che si è aperta. Guardo attraverso le lenti a contatto il marciapiede umido di brina e annuisco di nuovo. E per un istante eccoci di nuovo lì, al parco, a guardare gli scoiattoli chini sulle loro ghiande, a mangiare.
“Esiste”, confermo.
Mio padre attende un altro istante e poi torna a sorridere: “in bocca al lupo allora” gli sento dire mentre scendo dall’auto.


Archiviato in:Racconti Tagged: applicazioni, forever, Matteo Telara

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog