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Tabu di Miguel Gomes, visto oggi in Concorso, è uno di quei film che tra qualche anno verranno ricordati come espressione di quella malattia vintage che colpì il cinema all'inizio del XXI secolo: un melodramma in bianco e nero, modellato per buona parte sul cinema muto e ispirato fin dal titolo a Murnau. Rispetto a un'operazione simile come The Artist, è una riflessione questa volta autentica sulle forme del cinema passato e sulle sue ragioni storiche. Il melodramma in Tabu è inattuale, perché inattuali erano nella prima metà del '900 le colonie portoghesi; e a sua volta il cinema muto è un discorso fiabesco e antistorico (dal momento che viene usato per raccontare eventi ambientati negli anni '60) perché segno di un tempo irrecuperabile e fuori dalla Storia, qualcosa che resta nel cuore, come l'amore impossibile tra i due protagonisti, ma che può rivivere solo come racconto mitologico, in voce off, distante dal mondo e dalla vita. Tutto si disperde, in Tabu, tutto sfoca nel ricordo, e l'immagine non può certo recuperarlo: come dice una voce femminile nel prologo ironico, si può scappare lontano quanto si vuole, ma non si può sfuggire al proprio cuore. Forse il cinema, che la realtà del passato non può resuscitarla in forma viva, dovrebbe ricordarselo di più.