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Forsi è chisto il sapori della sconfitta

Creato il 28 luglio 2020 da Annalife @Annalisa
Forsi chisto sapori della sconfittadall’inizio alla fine

Il libretto dalla copertina arancione che si vede in foto è stato il mio primo acquisto di Montalbano: anzi, chiariamo, non l’ho nemmeno comprato, l’ho trovato impacchettato nella plastica, in regalo con un detersivo per la casa. Ricordo di averlo cominciato quattro o cinque volte: dopo un paio di arrisbigliarsi, si cataminava, e, soprattutto, di spiò (che per me voleva dire una cosa e per Montalbano un’altra), abbandonavo. Va da sé che, quando sono riuscita a superare lo scoglio, è stata una discesa veloce alla ricerca di tutti i romanzi dell’autore.

Poi, anni fa, Camilleri raccontò che, una volta morto lui, non avrebbe voluto che qualcun altro prendesse in mano le redini di Montalbano e ne facesse una più o meno riuscita prosecuzione. Disse che aveva deciso di mettersi al riparo da questa possibilità scrivendo un romanzo che chiudesse in modo definitivo la serie e che sarebbe stato pubblicato dopo la sua morte. In un’intervista, a dir la verità, Camilleri ha in seguito spiegato che non voleva finire come Montalbàn (l’autore) o Izzo: decisi a far morire i relativi protagonisti, erano morti per primi loro (nell’intervista dice di aver pensato: “col cavolo che faccio morire il mio di personaggio!”). Io non so quale delle due versioni sia ora quella esatta, ma ricordo anche, chissà perché, che qualcuno raccontò la scena finale di quello che sarebbe stato, di conseguenza, anche l’ultimo film per la Tv. La scena suonava più o meno così: dopo aver risolto l’ennesimo caso, Montalbano passa per le strade di Vigata con la gente alle finestre che lo saluta e lo acclama; al che, lui si rivolge nell’alto del cielo, quasi parlasse, consapevolmente, con il suo autore, al quale fa dei segni che significano, in ultima analisi: bene, grazie, adesso basta, eh.

Così, da quei momenti, a ogni nuova avventura cercavo quella scena finale. Che non è mai arrivata, nemmeno ora che la Sellerio dà alle stampe addirittura due edizioni: quella definitiva, e quella seguita dalla stesura originale di quindici anni fa.

Il titolo (Riccardino) suona molto diverso da quelli delle solite avventure di Montalbano, e diverso, molto, è l’impianto narrativo, benché sempre incentrato su un delitto per il quale il commissario cerca i colpevoli. Un delitto che, come altre volte, potrebbe avere più di una soluzione, mentre l’indagine del commissario si inceppa più di una volta di fronte ai consueti ostacoli (uno su tutti, il questore), ma anche di fronte a nuovi inciampi, che lo stesso Camilleri si compiace di disseminare. Ne risulta un testo ben scritto ma piuttosto leggero, dove prevalgono l’azione e i dialoghi, e lontano, per esempio, dalla densità delle pagine de La forma dell’acqua, che ho ripreso a leggere subito dopo Riccardino.

L’impressione è che, almeno ai tempi della prima stesura di questo volume, Camilleri ne avesse avuto abbastanza di Montalbano; di un personaggio che, complice il successo della serie televisiva, non poteva più abbandonare: tra le pagine, gli scazzi tra i due (autore e personaggio) sono a volte piuttosto acidi, pieni di insofferenza reciproca, tanto che è facile immaginare questo ottuagenario che si sente (giustamente) vecchio e che vorrebbe dedicare gli anni successivi a scrivere altro (a questo proposito, trovo piuttosto incongruo chi critica il sentimento della vecchiaia che a volte traspare, insieme alla stanchezza, sottolineando che, dopo ciò, Camilleri campa ancora quindici anni: presumo che, ai tempi, l’autore non se lo immaginasse, di poter campare così tanto).

Alla fine, ne risulta una storia di sicuro fuori serie, tanto che a molti potrà non piacere: in fondo, anch’io avrei preferito uno svolgimento ‘classico’, con una delle solite, belle, ricche indagini, con o senza catarsi finale, ma con la certezza che da qualche parte, chissà dove, esista davvero una Vigata, un commissario Montalbano, un Mimì Augello, un Catarella, e, soprattutto, un Fazio. Qui invece vengono a galla e si confondono la realtà del romanzo, quella del commissario televisivo e quella secolare, nella quale viviamo noi e ha vissuto l’autore. Tutto regge, tanto che in certi momenti ti ritrovi a mettere ordine nei vari livelli di accadimenti, e trascuri – perché è trascurata dall’autore – la vicenda gialla che dà il titolo al libro.

Perché tutto appare funzionale non tanto allo svolgersi del racconto in sé, ma al taglio finale, al saluto senza remissioni che dobbiamo a Salvo Montalbano, perché, se pure noi saremmo andati volentieri avanti ad libitum, è anche lui che non ne vuole sapere di sopravvivere al suo creatore, al quale – dispettosamente – decide di sottrarsi. In realtà, però, il dispetto lo fa ai lettori.

Giudizio quindi incerto, il mio: ammirata per l’escamotage narrativo che Camilleri ha colto al volo quindici anni fa, per la stesura piacevole, per la struttura sicura, avrei tuttavia più volentieri goduto di una delle solite dense, intense, brillanti storie vigatesi, e di un più tradizionale addio.


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