Domenica sera sono andato alla presentazione di due libri all’Isola Tiberina. Dopo c’è stata una cena. Alla cena erano presenti una decina di persone. Io ne conoscevo a malapena un paio. La cena era in una pizzeria di Trastevere, uno di quei posti con troppi coperti che ringhiano ostilità. Alle pareti erano appese una infinità di fotografie. Presumo fossero i ritratti di famiglia del proprietario della pizzeria. C’erano gli ingrandimenti di due bambini proprio sopra le nostre teste. E, ancora, foto-dediche di attori famosi, calciatori, cantanti, gente del mondo dello spettacolo. Una cosmologia degli affetti, sia pubblici che privati, di cui la maggior parte di noi rideva. Chiunque passi di là deve cenare al cospetto di questa galleria familiare. C’è qualcosa di profondamente romano in un tale sfoggio di appagamento domestico, in questa esibizione di felicità, in questo modo di considerare gli affetti come un trofeo da esporre sullo scaffale migliore, quello più in vista. Qualcosa che a me suona ordinario, ma che a uno straniero deve apparire tremendamente folcloristico. La cameriera aveva un sorriso stanco ma gentile, assomigliava vagamente alla cantante dei Ricchi e Poveri, si muoveva in punta di piedi, sbrigando le sue piccole grandi faccende. Non so se facesse parte della famiglia, o se fosse semplicemente una dipendente del locale. Alle piagnucolose insistenze dei clienti opponeva sempre e soltanto quel suo sorriso sfiancato e sincero. Quando siamo andati via l’ho vista tirare un sospiro di sollievo, eravamo gli ultimi a lasciare la sala. Ma l’ho vista fare anche un’altra cosa, l’ho vista avvicinarsi di nascosto agli ingrandimenti dei due bambini, toccare di soppiatto l’angolo di una delle due cornici, come per centrarla di nuovo sulla parete, come se con le nostre livide canzonature ne avessimo compromesso la stabilità.
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