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Fotografia della Storia o Storia della Fotografia: Fotografie che celebrano la crudeltà

Da Leragazze

Esiste un genere fotografico in cui le immagini, anziché condannare la crudeltà, la celebrano, per esempio le tante di produzione nazista.

Moltissime di esse andarono perdute o furono distrutte intenzionalmente, ma si calcola che ne esistano ancora più di un milione: alcune ufficialmente commissionate dall'alto, altre scattate spontaneamente dai soldati sul campo. Ad Auschwitz, per esempio, ne furono scattate a migliaia: il campo disponeva di due fotografi ufficiali delle SS che potevano contare sull'assistenza di una squadra di internati. Il ghetto di Varsavia era invaso dai turisti tedeschi che arrivavano lì in quanto membri dell'unità di propaganda, soldati in libera uscita o lavoratori in gita. Michael Zylberberg, docente di storia ebraica, registra nel suo diario del ghetto che i visitatori tedeschi "fotografavano con entusiasmo i morti [...] soprattutto la domenica, quando visitavano il cimitero con le loro ragazze".

La Wehrmacht incoraggiava le fotografie di dilettanti e autorizzava I soldati a usare la loro macchina fotografica personale al fronte. Non a caso quindi venivano bombardati dalle aziende che producevano materiale fotografico con pubblicità che affermavano: "Zeiss Tessar per i tuoi ricordi di guerra!" "Voigtländer Kleinbildkamera verso la vittoria finale!" "Agfa Photos: un ponte tra il fronte e la tua casa!"

Uno di quelli fu il sergente tedesco e fotografo dilettante Heinrich Jöst, albergatore nella vita da civile. Nel settembre 1941 trascorse una giornata libera, era il suo compleanno, girovagando per il ghetto di Varsavia con la sua reflex per fotografare gli ebrei affamati, terrorizzati, ammalati di tifo, morenti, accatastati da cadaveri. Le sue 137 foto, dopo che il settimanale tedesco Stern le aveva rifiutate, furono acquistate dal museo israeliano Yad Vashem che le ha portate in mostra in tutto il mondo. Quindi sono state pubblicate nel 2001 nel libro In the ghetto of Warsaw insieme ai suoi ricordi di quella che definì una "passeggiata all'inferno".

In alto potete vederne una selezione (clic su una qualunque per aprire la galleria). Non sono foto professionali, le persone sono inquadrate dall'alto, stabilendo, chissà quanto inconsapevolmente, il loro rango di esseri inferiori. Oltre allo strazio che provocano, colpisce il loro sguardo dignitoso, indignato e sorpreso.

Come sostengono alcuni critici, questo genere di foto, intese a degradare le persone ritratte, non sono semplici documentazioni di atti di crudeltà, ma sono di per sé atti di crudeltà.

Per tutta la durata della guerra i governi e la stampa occidentali hanno considerato quelle immagini di atrocità e i rapporti che le accompagnavano come esempi di propaganda sovietica o ebraica, inaffidabile ed esagerata; solo una piccola percentuale di esse venne pubblicata. E anche quelle che furono stampate non riuscirono, in generale, a suscitare le reazioni auspicate: un fatto, come osserva la studiosa Susie Linfield, che dovrebbe far riflettere quanti sono convinti che è solo il pubblico post-Olocausto a essere diventato insensibile alla violenza, per via di una sovraesposizione a immagini orripilanti.

Per leggere le puntate passate e future (è possibile anche questo nel Blog delle Ragazze ;) ) cliccate sull'argomento "Storia della Fotografia" alla fine del post.

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