Ok, faccio Coming out.
In questi giorni pre-Pride mi sono auto-convinto che sarebbe stato un fallimento totale. Prima perché c’è stato il terremoto e, improvvisamente, a molti di noi è sembrato “normale” annullare il Pride. O chiedere di farlo, almeno, perché quando accadono cose brutte vorresti che tutto il mondo si fermasse e cominci a pensare che forse non è il caso di portare musica e colori nei luoghi che hanno vissuto il lutto. Pensi anche a quel che dirà la gente. Anche se continui a ripetere a te stesso che non ti importa nulla. Pensi: “Cosa scriveranno i giornali?” e magari preferisci arrenderti, credere che se non scendi in piazza per un anno, dopotutto, non è poi questa tragedia.
Poi, dopo la decisione del comitato Pride di fare una manifestazione senza carri e senza musica (quella dance o tecno) ho pensato: “Ok, perfetto, però così si snatura il Pride e poi chi vuoi che venga?”
Ed è con questi pensieri che mi sono avviato al Pride oggi. Lo ammetto, è vero, non ero pronto ad accettare questo Pride per una quantità enorme di motivi. Perché sono deluso da Bologna. Per esempio. E per la crisi. Per il lavoro che snatura le nostre giornate, se lo hai probabilmente è peggiorato e se non lo hai sei pronto ad accettare anche un lavoro sottopagato e senza tutele. E per la poca fiducia che, negli ultimi tempi, ho nelle istituzioni e nelle persone.
Il motivo principale è che mi sono inaridito e quando ci si inaridisce, quando si è presi troppo da se stessi, dalla propria quotidianità, dal proprio ego allora si smette di guardare al mondo.
Arido. Non trovo altra parola per descrivere lo stato d’animo con cui mi sono presentato al Pride.
Ho cominciato a guardarmi nervoso intorno dicendo alle persone che erano con me: “Stiamo scherzando è un Pride nazionale, c’è pochissima gente!”
Ero fermo in quel pezzetto di parco ma non stavo davvero guardando. Non volevo vedere che le cose stavano andando diversamente da come me le ero aspettate. Neppure il buon Henry, che era con me, è riuscito a farmi cambiare prospettiva (nonostante ripetesse ogni due secondi: “Questo Pride è bellissimo”) e poi abbiamo cominciato a camminare e ogni passo che facevo osservavo la gente intorno a me, guardavo quelle persone camminare per le vie di Bologna, tanta, tantissima gente. E poi, una volta superati i miei pregiudizi sul numero dei e delle partecipanti mi sono reso conto che ero parte di qualcosa di molto più grande. Ero in mezzo a persone che ci credono ancora. Niente carri, niente musica house o techno niente di tutto quello che ci eravamo abituati ad avere negli ultimi Pride. Ed è stato in un certo senso, il tornare alle origini voglio dire, un qualcosa di rivoluzionario, perché lì, in quelle strade, c’erano uomini, donne e trans, di ogni età e colore carichi/e di speranza. Non erano lì per Lady Gaga o per fare festa. Erano lì per i propri diritti, per sfilare urlando slogan (Ok, ok, lo ammetto ho proposto una cosa del genere: “Tremate, tremate le checche son tornate!” ma i miei compagni di viaggio, visto il momento, hanno ritenuto che quel “tremate” non fosse adatto.) ma soprattutto erano in quelle strade per sentirsi comunità.
E allora sì, lo ammetto, siam tutti bravi a parlare ma il Pride lo hanno organizzato uomini, donne e trans, superando molte difficoltà e, per una volta, in quella piazza, le divisioni e le divergenze, anche se non sono scomparse, hanno riposto le armi. Perché eravamo tutti a Bologna per lo stesso motivo, perché far parte di una comunità significa anche sentirsi a casa.
Il terremoto non è stato un evento che non ci ha riguardato. Anche le persone GLBT hanno perso case e persone amate, oggetti e pezzi di passato e l’essere lì e poter fare qualcosa di concreto in un momento così difficile è stato gratificante. E sentire la presidente di Arcilesbica nazionale parlare di diritti per tutte e tutti, di lotta alla xenofobia, sentire la presidente di Arcilesbica Bologna ricordare che le donne e le persone trans pagano il prezzo più alto o sentire Flavia, la mamma di Agedo Bologna, lanciare il suo doloroso appello ai genitori e alle genitrici delle persone GLBT o, ancora, ascoltare il padre di Daniel Zamudio, il ragazzo cileno torturato e ucciso da dei delinquenti neonazisti, parlare dell’importanza di essere se stessi mi ha fatto pensare a quanto noi stessi possiamo, a volte, essere i peggiori nemici della nostra causa. Il Pride di oggi è stato un Pride politico, un Pride in cui ha parlato un sindaco che senza tentennamenti ha sostenuto di essere favorevole a una legge contro l’omofobia e al matrimonio civile per persone dello stesso sesso. Un Pride in cui i contenuti, probabilmente per la prima volta dopo anni, hanno avuto la meglio sulla festa.
E poco importa se domani i giornali pubblicheranno foto che faranno apparire il Pride come qualcosa di scandaloso ai soliti bigotti che non hanno il coraggio di alzarsi dalle poltrone per venire a vedere con i propri occhi che cos’è il Pride. Io stesso oggi ho visto un gruppo di giornalisti togliere (letteralmente) la canottiera a un ragazzo per fotografare il suo tatuaggio. Non ci deve più importare cosa penseranno gli altri di noi.
L’importante è che oggi noi eravamo lì, a Bologna, al Pride, a marciare tutt* insieme sfottendo, con i nostri sguardi chi, ai margini delle strade, si aspettava qualche provocazione da noi, per poterla fotografare e poi mettere su Facebook. Noi eravamo lì, in piazza Maggiore, una Piazza che ha una valenza politica e siam passati davanti a chiese che sino a ieri avevano le porte aperte e che oggi, come a ricordarci che quella fetta di società non sarà mai dalla nostra parte, erano chiuse.
E allora, forse, le persone che si sono barricate in quelle chiese chiuse, dietro i catenacci della propria pochezza ideologica, si sentono come mi sentivo io questa mattina.
Arido.
Marino Buzzi
Magazine Opinioni
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