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Non è certo una novità quel mio impulso irresistibile di abbandonare la coda all'imbarco aereo per gli States e infilarmi nella libreria Feltrinelli a un passo dal Gate G03 dell’aeroporto di Fiumicino; lo faccio sempre, ogni volta che, con almeno otto ore di volo davanti a me, vengo preso dalla paura che i due libri infilati nella tasca del bagaglio a mano possano non essere sufficienti a ottimizzare la permanenza obbligata su un sedile di Economy Class.
Assai più imprevisto è stato invece quel gesto istintivo che, chissà perché, senza lasciarmi il tempo di ragionarci su, ieri mattina, in quella libreria vicino all’uscita per i voli intercontinentali, mi ha fatto comprare una copia dell’autobiografia di Tiziano Ferro.
Ho già detto su questo blog quanto io abbia apprezzato il recente coming out della popstar di Latina, ma non essendo mai stato un suo ammiratore e non avendo mai avuto la forza di ascoltare tre suoi pezzi di seguito, certo non mi sarei aspettato di trovarmi invogliato a spendere sedici euro per i suoi diari postadolescenziali. Né, tantomeno, avrei potuto immaginare che su quelle quattrocentoottantotto pagine mi ci sarei tuffato dentro, bevendomele tutte d’un fiato durante la mia traversata atlantica.
Diciamolo subito a scanso di equivoci: “Trent’anni e una chiacchierata con papà” non si può certo definire un bel libro, né tantomeno si può dire che sia scritto con grande maestria. Ferro ha deciso di pubblicare i diari da lui redatti da quando era un quindicenne fino a l’altro ieri, e non ci sono dubbi che i concetti e le forme espressive sono proprio quelle tipiche di un ragazzino introverso e preso dai propri banali tormenti. Ciononostante, non posso nascondere che mi è rimasta molto più addosso e dentro questa raccolta di paginette di quaderno autoreferenziali che non tanti strutturati romanzi di acclamati autori di fiction.
Ci si voglia credere o no, io ho l’impressione netta che Tiziano Ferro abbia deciso di mettersi completamente a nudo, sviscerando tutte le sue debolezze emotive e linguistiche, e senza che uno se ne renda neanche conto, proprio per questa sincerità pura, per la voglia di mettere in piedi una confessione del tutto priva di orpelli e abbellimenti, il libro finisce col coinvolgerti come opere molto più complesse e “alte” difficilmente riescono a fare.
Non so… sarà che come il nostro eroe anch’io sono sempre stato pieno di insicurezze, dubbi e fragilità che non si lasciavano scalfire dai miei piccoli e grandi successi; sarà che, come Tiziano Ferro , sebbene io non sia un divo della canzonetta, mi trovo spesso solo in camere d’albergo sparse per il mondo, pieno di malinconie, di angosce e di scricchiolii interiori; sarà perché, pur non avendo mai avuto un rapporto problematico con il cibo, comprendo alla perfezione tutte quelle paure sul proprio aspetto fisico; sarà che chi ha la forza di apparire debole esercita su di me un fascino irresistibile. Fatto sta che posso senza dubbio dire di essermi sentito talmente simile al cantante-autore da provare un dispiacere tangibile, una volta giunto all’ultima pagina.
E stasera, in questa camera d’albergo di Boston, prima di addormentarmi rileggo nuovamente qualche pagina di quel diario da adolescente approssimativo, e le mie ansie da solitudine un po’ si placano al pensiero che, proprio come canta lui, quando si tratta di debolezza, nessuno è mai veramente solo.