Francesca Del Moro - Gabbiani ipotetici

Da Ellisse

Francesca Del Moro - Gabbiani ipotetici - Cicorivolta Edizioni, 2013

Il gabbiano che attraversa trasvolando con qualche incertezza, qualche dubbio e qualche ferita, ma molta determinazione questo libro di Francesca Del Moro è - secondo l'avvertenza di Giorgio Gaber in esergo -  l'alter ego, o meglio ancora il deuteragonista de "l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana". Non sono però separati, anzi "ci si sente come in due". Ovvero, come titola un testo, "squilibrata e sana", qui e altrove, dentro e "fuori"la vita. E' questa bipolarità tra il rasoterra e il volo, io credo, ad essere creativa, questa coscienza dolorosa e sopportata, nel vero senso del termine, portata sulle spalle. Se tu ne prendi atto e sei capace di dargli un nome, di scriverlo, allora il dolore non è "sordo", anzi acquista una voce. Una voce potente. Qui la voce (poetica) è arrabbiata, anzi incazzata. Lo dico pur sapendo che a Francesca non piace, perchè sa di clichè, come scrive in suo testo. Ma so anche, come scriveva Bukowski da qualche parte (cito a braccio) che la gente è matta, e se non è matta è arrabbiata, e se non è né matta né arrabbiata (vuol dire che) è semplicemente stupida. Cosa, quest'ultima, che credo sia la vera discriminante, poiché esclude implicitamente l'arte. Se si parte da questo presupposto (o discriminante) perfino parlare di poesia femminile ha poco senso, e questo mi solleva poiché sono convinto che non sia un genere, esattamente come (appunto) quella "arrabbiata" o quella "giovane". Direi che tutto dipende dai filtri (anche  psichici, e dall'intelligenza, anche ma non basta) attraverso cui l'esperienza (magari brutta) subisce la sua metamorfosi in significato, come un kafkiano  insetto mostruoso che torna ad essere Gregorio. Diciamo, per spiegarla diversamente, che qui, come sosterrebbero altri, c'è una forte correlazione tra l'io analitico, quello dolorante/corporeo/affettivo/sentimentale e quello etico, o narrante. Insomma, per un poeta non basta prendere atto di un amore finito, di un disagio esistenziale o femminile, della morte di un amico caro, delle ingiustizie, della sconfitta politica e magari farsene una ragione. Semmai, al contrario, gli interessa fare dell'esperienza qualcosa di irragionevole. Come forse farebbe un gabbiano. Tutto naturalmente è molto più "concreto", nei testi, di quanto possa apparire da questo discorso. La sordità del dolore di cui dicevamo viene contrastata dal lavoro di scrittura. Qui in effetti la scrittura, anche con i suoi eventuali "inestetismi", è importante perchè sonora, fàtica. Diretta, "primaria", spesso tutta d'un fiato ("frenetica" dice Adriana Soldini nella prefazione), a volte scatologica, apparentemente spontanea, è fondamentalmente priva di trabocchetti metaforici, di roba da decifrare. Dice quel che deve dire, anche in maniera percussiva, e tuttavia restituisce, nei testi migliori, una leggerezza antieroica, una donna che non vuole essere emblematica, semmai vorrebbe essere felice. La narrazione è comportamento vissuto, e quindi etica. Il linguaggio è selezionato su un registro volutamente "naturale", e quindi scelta ideologica, di non separazione tra il dire e il poetare (e infatti Francesca, in un testo intitolato "Soancheioscriverecazzateermetiche", ironizza su certe maniere: "da estenuati ossari / promanano lacerti d'urlo...") Certo "Gabbiani ipotetici" ha le sue discontinuità, i suoi momenti alti e quelli bassi, come naturale. Un esempio per tutti: non è facile - non è mai facile - fare una poesia politica o "civile" che sia anche "bella", che sia qualcosa di più di una invettiva. Il problema, a mio avviso, sorge quando in essa, secondo una classica distinzione, i valori secondari (il principio di realtà, la cultura, il sociale, il politico) prendono il sopravvento su quelli primari (la libido, i sensi, il "cuore", l'umano, il primordiale). Il difficile sta lì, in fondo, in questo tipo di controllo artistico di sé come autore. Eppure in una poesia come Dimenticare Genova (v. qui sotto), Francesca ci riesce. E lo fa semplicemente cambiando direzione, precisamente all'ultima strofa. Il passaggio da un ricordo plurale che svanisce (avevamo paura...chi se lo ricorda ormai...) a una singola marcatura che quel ricordo rinfocola avviene bruscamente con la messa a fuoco di un primo piano, con una singola metafora (il cuore) vecchia come il mondo ma efficace. Con una specie di  passaggio cine tra un campo lungo e il dettaglio le cose, l'umano, il politico, si conciliano. Ma a parte queste considerazioni forse marginali, questo libro si aggiunge alle cose più interessanti che ho letto ultimamente, quasi tutte scritte da donne. E se questo smentisce ciò che ho appena detto sul "genere", pazienza.
Squilibrata e sana
Impazzisci e muori
o diventa equilibrato e malsano.
(Antonin Artaud)

squilibrata e sana
senza niente di tutto quello
che avete deciso essere
il successo la soddisfazione
il rispetto di se stessi la realizzazione
senza quello che avete deciso essere
necessario per vivere o per meglio dire
necessario per non suicidarsi
senza la spasmodica ricerca
di un senso di una compiutezza
senza essermi mai misurata
in figli soldi amore amici
beni immobili rispettabilità fama
ma nemmeno eccessi
droghe alcol sesso rabbia
proteste senza essermi
mai misurata
senza aver mai valutato me stessa
sono quello che mi viene
a dispetto del contesto
senza amore non si vive
senza gli altri non si vive
senza il rispetto di se stessi
non si vive invece vivo
vedo le tue mani un po’ invecchiate
e morbide posarsi sulle mie
le tue mani piene di saggezza
scorgo baffi bianchi nell’ombra intuisco
il dondolio di una sedia ho il presentimento
del sole che nascondi dietro la finestra
ma non appenderò le mie grida al tuo attaccapanni
non mi avvolgerò al calduccio delle tue parole
non mi farò dettare i minuti dalle tue pasticche
non accetterò nessuna diagnosi
non sarò il tuo caso non sarò la tua battaglia
non sarò il mio cammino non sarò la mia meta
sarò quello che mi viene
Sera
La stanza è squallida e spoglia
coi vestiti ammonticchiati negli angoli
e una lampadina che pende dal soffitto.
Il bianco delle pareti nude
mi soffoca come sempre
però il tè marocchino è buonissimo
e mi piacciono il suo profumo
e l’accento con cui parla italiano.
Per gratitudine o noncuranza
gli lascio affondare la lingua e le dita
subito prima di andarmene.
Poi, mentre cammino verso casa
ed è buio e in giro non c’è più nessuno,
penso a quanto potrebbero far male
due colpi secchi di rasoio ai polsi
e che in fondo sembrerebbe bello
il mio corpo vestito di sangue.
Appena ho un momento libero
Appena ho un momento libero
quando mio figlio è a scuola
e la casa è pulita
e ho finito di stirare
appena trovo il tempo
e la traduzione è finita
e sono uscita dal lavoro
se l’autobus è puntuale
se il treno stranamente pure
appena ho un attimo
e fuori c’è bel tempo
e ho pagato le bollette
e sono stata in banca
e il dottore mi ha visitata
appena ho un momento libero
finalmente
una buona volta
quasi quasi
io mi uccido.
Aspettando Caterina
dal computer alla finestra
al bagno al computer
al corridoio alla finestra
al computer alla porta di ingresso
io con gli occhi enormi
come cuori rossi come cuori
pulsanti sangue come cuori
in senso anatomico s’intende
non in senso sentimentale metaforico
nel senso dell’organo asimmetrico
gonfio rosso con le vene violacee
io col corpo tutto un pianto
io tutta lacrime e lacrime
e troppo sangue nel momento sbagliato
il ventre come una pompa
io che mi sciolgo nel sangue in basso
e in alto gli occhi come sangue sono rossi
e grossi come cuori
dal computer alla finestra
al bagno al corridoio
al computer alla porta di ingresso
un percorso difficile
io tutta così precariamente tenuta insieme
mi sciolgo nelle lacrime e nel sangue
senza capire bene come funzionano
le une e l’altro da dove vengono
da dove le une e da dove l’altro
le lacrime in alto il sangue in basso
occhi e ventre ugualmente
colanti gocciolanti trasudanti
pesanti doloranti ingombranti
solo occhi e ventre attivi percepiti
il resto difficile da tenere insieme
dal computer alla finestra
al computer al bagno
così tanto sangue non l’ho mai visto
e al momento sbagliato
così tante lacrime non le ho mai sentite
sul viso sul collo sul petto sulle mani
così enormi i miei occhi non sono mai stati
grossi e rosso sangue come cuori
battono ormai pulsano come cuori
in senso anatomico s’intende
non in senso sentimentale metaforico
in senso anatomico tanto mi costa
tenere insieme il mio corpo in senso anatomico
dal computer alla porta d’ingresso
alla finestra al bagno
alla macchinetta del caffè sarebbe bello
bere una tazza di caffè ora ma infilare la cialda
è troppo difficile adesso con le mani
che si sciolgono in lacrime colano sangue
non afferrano al massimo picchiettano
i tasti del computer devo lavorare
comunque ho da fare comunque
me lo farai tu il caffè quando vieni
ancora un’ora io mi tengo insieme
ti aspetto
Preghiera
Perché non risponderti ora
Dio
non la voglio la tua vita
ci sputo sul tuo regalo.
Non lo adorerò
te lo do indietro
mi hai creata per desiderare
all’infinito una carezza
e ricevere in cambio degli sputi
mi hai creata per volere un briciolo d’amore
e ricevere in cambio del disprezzo.
Non sono degna, non sono degna
di uno sguardo, non sono idonea
per la riproduzione, il sesso, l’amore
e allora tieni, tieni, tieni
le mie vene secche, la geometria
di sangue sulla pelle e inebriati
della mia morte volontaria, che bravo sei,
mi hai cancellata, condannandomi a vivere
per sempre morta, ma io t’inganno
e mi ribello e mi taglio le vene
e la tua vita mi fa schifo e te la rendo
e quell’amore che mi neghi
io non lo voglio
sono morta, ecco, io l’ho deciso,
tu non hai vinto.
Al mio ex marito e alla sua nuova moglie
senza rancore

Piantarvi i denti nella carne,
succhiarvi la pelle finché non si colora,
lavarmi il viso con il vostro sangue,
e poi gettarmi sopra la testa
le schegge delle vostre ossa
come una pioggia di coriandoli.
La vostra cattiveria
la vostra irrisione
la vostra insensibilità
ora le faccio mie.
Ora faccio l’etica a brandelli,
ora vedo solo la mia strada.
Ora mi adeguo alla legge della natura.
Sopravvivo, sono la più adatta,
mi metto in fondo
alla catena alimentare
ideata da quel Dio geniale
che ora sommerge
con una risata universale
i goffi tentativi umani
di farlo giusto e buono
e di inventare una morale.
Ora guardo intorno a me
i risibili pezzi di carne
di voi che avete fatto a pezzi
la mia vita,
mi riempio gli occhi
dei vostri occhi sbarrati.
Mi consegno mia sponte
calma e collaborativa
passo notti e giorni
a leggere e a non parlare
e a sorridere
se mi capita di immaginare
Dio che mi dà una pacca sulla spalla
mentre si compiace di guardare
la poltiglia che vi ho fatto diventare.
Dimenticare Genova
A un certo punto
avevamo paura perfino
dell’aria, del cielo plumbeo,
degli elicotteri-avvoltoi
che ci sorvolavano.
Stavamo stretti
per proteggerci,
coi nostri sogni
in tasca insieme ai sassi
e ai pugni chiusi,
ci infrangevamo
come onde infilzate
da fili di vento.
Chi se lo ricorda, ormai,
per cosa marciavamo,
la giustizia globale,
come potevamo chiedere
tanto se nemmeno
su uno sputo di terra
c’è giustizia.
“Mi hanno schiacciato
la faccia con gli stivali”
racconta lei tra visi amici, dopo,
“sentivo il sangue in bocca,
le costole rotte, ho perso due denti,
ma”, dice e le si spezza la voce,
“non faceva male il corpo, era il cuore,
era il cuore a fare male.”
A Brian
   Nella notte specchiata sui tuoi capelli nel mare feroce
dei tuoi occhi nella tua bocca che provoca e sfida nei tuoi
piccoli denti vergognosi nel bianco solco del tuo petto
   io consumo la mente
   io rinchiudo il mio corpo
   io scialacquo il mio tempo
   io accarezzo il progetto
   di diventare unica per te
   morendo.
È che nel tuo cuore
È che nel tuo cuore
offerto come una scodella vuota
io rovescerò
insieme a tutto il mio amore
questa tristezza
di bambina non voluta.
Ci cadrà, insieme alla passione,
una supplichevole forma di bisogno
come quando, rompendo le uova,
l’albume cade per sbaglio
insieme al tuorlo.

In un immaginario contatore di significato

In un immaginario contatore di significato
il numero di figli sarebbe aumentato
o, in mancanza, il numero di libri.
Invece tutto si è fermato
e io non sono nemmeno
nelle braccia o nel pensiero
di qualcuno.
Marina
Con l’occhio
a qualche centimetro
dalla sabbia
spio il tremore del vento
sulle cose.
Una borsa, una busta,
gli ombrelloni in lontananza.
Dietro i miei piedi
il mare che russa.
Ci vorrebbero due mani
incantate dall’inarcarsi
delle mie spalle
per riempirmi il buco in gola
per strapparmi la nausea
dalla bocca
per fermare la fuga dei pensieri
verso quello che non sono.
Io non sono
parte di nessuno
di questi quadretti familiari da spiaggia.
Io non ho l’età
per stare in quel gruppo di ragazzi
che ancora sognano in cerchio
davanti al tramonto.
Io non ho la dignità
della figura di spalle solitaria
che cammina nell’acqua
fino a sparire insieme al sole.
Io sono
un nodo di sabbia sospeso
che un refolo subito scioglie.

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