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Francesca e Ugolino: parole e silenzi speculari

Creato il 28 dicembre 2015 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
L'ultimo appuntamento con gli Itinerari danteschi di questo 2015 dedicato ai 750 anni dalla nascita del Sommo ci porta ad una nuova lettura della Commedia e ad incontrare due delle figure più note e affascinanti che popolano l'Inferno: Francesca da Rimini e Ugolino della Gherardesca.
Molto lontani l'una dall'altro per la diversità dei loro peccati, sono tuttavia accomunati dal loro modo di raccontare il dramma umano che ha caratterizzato gli ultimi momenti delle loro vite. Francesca, come è noto, corre incontro a Dante nel canto V assieme a Paolo Malatesta, fratello del marito Gianciotto, facendosi largo nella bufera infernale in cui sono avviluppati i lussuriosi del secondo cerchio. Ugolino, invece, appare al poeta nel canto XXXIII mentre compie un atto bestiale: intrappolato nella ghiacciaia del Cocito (nel livello dell'Antenòra), egli tiene per i capelli il cranio aperto di un uomo e ne divora il contenuto.

Francesca e Ugolino: parole e silenzi speculari

D.G. Rossetti, Paolo e Francesca (1855)

Sono due immagini ben diverse: da un lato due amanti sventurati la cui passione si perpetua assieme alla sofferenza della punizione che per essa hanno meritato, dall'altro due dannati che consacrano all'eternità il loro odio. Sono due coppie speculari, elevate alla gloria l'una per l'eccesso di amore (seppure un amore carnale), l'altra per eccesso di odio: in entrambi i casi sono coppie che hanno contribuito alla reciproca dannazione. È, del resto, molto interessante notare come i momenti di maggior trasporto, nell'Inferno, siano quelli dei colloqui con dannati raggruppati in coppie: memorabili, oltre a quelle di Francesca e Paolo e Ugolino e l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, sono le apparizioni di Ulisse e Diomede (canto XXXVI) e di Cavalcante Cavalcante e Farinata degli Uberti (canto X). Le prime tre coppie, in particolare, condividono anche i ruoli, dal momento che uno dei personaggi parla e l'altro rimane muto al loro fianco.Per le due coppie di nostro interesse, però, vale pienamente un accostamento che non si limita ai ruoli, ma si estende alle modalità della loro manifestazione. Francesca e Ugolino sono accompagnati dalle persone che maggiormente hanno determinato il loro essere peccatori, coloro con i quali hanno diviso una colpa: la lussuria per Francesca e Paolo, il tradimento nei confronti della patria e dei compatrioti per Ugolino e Ruggieri, l'uno accusato di tradimento nella battaglia della Meloria contro Genova (1284), in seguito alla quale prese il potere a Pisa, e della cessione di alcuni possedimenti cittadini alle nemiche Firenze e Lucca, l'altro di averne rovesciato il governo in sua assenza, per poi tendergli un tranello al suo ritorno e farlo imprigionare con i figli e i nipoti nella torre della Muda, dove si consumò la loro morte per fame e stenti.
Entrambi i dannati raccontano, in presenza del loro vicino, lo svolgimento delle loro storie. Lo chiede Dante stesso, a Francesca dopo che ella stessa si è presentata e ad Ugolino in chiusura del canto XXXII, di fronte all'orrido spettacolo del suo pasto infernale. Entrambi reagiscono allo stesso modo alla richiesta del poeta, che vuole capire come siano nati l'amore di Francesca e Paolo e l'odio di Ugolino e Ruggieri (ma di questi ultimi ancora non conosce l'identità).
Sia Francesca che Ugolino lamentano in primo luogo la sofferenza del ricordo cui Dante li costringe con le sue domande, ma, anche se non volessero rispondere, la Provvidenza che ha voluto il viaggio oltremondano del pellegrino lo imporrebbe loro.
Così Francesca, che ha il coraggio di parlare, mentre Paolo singhiozza e non osa proferir parola (Inf. V, vv. 121-126):
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Queste, invece, le prime parole che Ugolino, sollevate le fauci dal cranio marcio di Ruggieri, rivolge a Dante (Inf. XXXIII, vv. 4-9):
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.
La similarità fra le due scene, dunque, non si limita alla presenza, sulla scena infernale, di due peccatori parlanti affiancati dai compagni di dannazione muti, ma si riproduce nella scansione delle loro risposte.
Per entrambi, richiamare le circostanze del peccato (sebbene per Francesca questo coincida con un momento sentimentalmente gioioso) è motivo di enorme sofferenza, cosicché il loro parlare è inevitabilmente legato al pianto, come si vede dall'apertura e dalla chiusa delle due coppie di terzine esaminate. La seconda delle due terzine, in ciascuno dei due esempi, si apre con una proposizione avversativa, che sancisce la necessità della confessione richiesta, che per Francesca esaudisce un desiderio di Dante, mentre per Ugolino è allo stesso tempo l'occasione per gettare infamia sul suo nemico silenzioso. Interessanti sono le metafore qui usate per le notizie riportate dai due dannati: Francesca sottolinea come la sua risposta spieghi la radice del suo amore per Paolo, mentre per Ruggieri soddisfare la curiosità di Dante significa seminare una pianta che possa crescere rigogliosa a denunciare l'infamia dell'arcivescovo Ruggieri. Nel canto V si allude ad una pianta d'amore, per quanto di un amore peccaminoso e radicato in un'esperienza letteraria che Dante non tarda a rinnegare e che provoca in lui un senso di pietà soverchiante, mentre nel XXXIII oggetto di attenzione è una 'pianta dell'odio'.

Francesca e Ugolino: parole e silenzi speculari

Franz von Bayrosù, Paolo e Francesca (1921)


Seguono i racconti appassionati dei due peccatori, con quello di Ugolino che occupa molto più spazio della ricostruzione di Francesa, la quale già nel suo presentarsi ha anticipato molte informazioni. Entrambi i racconti si chiudono con una sorta di zumata sulle bocche dei peccatori, quella di Francesca tremante nel bacio di Paolo, quella di Ugolino volta al suo macabro pasto, con i denti che affondano nelle ossa craniche di Ruggieri.
Ma ciò che più risulta speculare nei due episodi è la proverbiale reticenza di Francesca e Ugolino. Nel ricostruire le storie di questi personaggi, infatti, Dante può avvalersi del supporto della memoria dei suoi lettori, poiché parlare di Francesca da Rimini o di Ugolino della Gherardesca equivaleva a nominare grandi personaggi della politica nazionale odierna, con quel misto di pettegolezzo che in nessuna era si è lasciato desiderare. In ogni cantica, per ogni parola che Dante fa pronunciare ai suoi personaggi si aggiungono le reminescenze e gli aneddoti che circolavano sulla bocca di molte persone che con l'autore condividevano un retroterra storico e culturale. Per questo il poeta può celare alcune notizie, approfittandone per stuzzicare la curiosità dei contemporanei e quella dei lettori e dei critici successivi.
Vediamo come si chiudono i due interventi, partendo da quello di Francesca (Inf. V, 133-138):
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.
Queste, invece, le parole di Ugolino, dopo che egli ha descritto la sua prigionia nella torre della Muda, il sogno premonitore della morte e lo strazio dei figli, disposti a farsi pasto per il loro padre di fronte al mordersi le mani di Ugolino, da loro inerpretato come segno di fame ansciché di disperazione (Inf. XXXIII, vv. 67-75), fino alla morte del piccolo Gaddo, che implora invano aiuto:
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno.

Francesca e Ugolino: parole e silenzi speculari

J.B. Carpeaux, Ugolino e i suoi figli (1866)

Le coppie di terzine si chiudono allo stesso modo, con un sipario che cala in fretta su scene che hanno dato adito a interpretazioni e dibattiti destinati a non avere fine. L'improvviso silenzio di Francesca e Ugolino, predisposto da Dante con un procedimento retorico che prende il nome di reticenza o aposiopesi (dal greco ἀποσιώπησις, derivante dal verbo ἀποσιωπάω, 'mi interrompo, taccio'), permette di ottenere un effetto di sospensione e allusione che fa leva sulla conoscenza delle vicende da parte dei lettori.Sostenendo che la lettura delle avventure di Lancillotto e Ginevra si interruppe con il bacio di Paolo Francesca vuole forse dire che quel gesto segnò la loro condanna a morte come traditori di Gianciotto Malatesta o che da quel momento la passione si sostituì ai libri, lasciando che un vero amore soppiantasse uno romanzesco? E, per lo stesso motivo, il digiuno che ha la meglio su Ugolino è da intendersi come il sopraggiungere di una morte per fame o come l'abbandono al bisogno di nutrirsi saziandosi delle carni dei figli morti? La reticenza, insomma, oscura il consumarsi del peccato oppure la morte che pone fine alle vite di Paolo, Francesca e Ugolino?
Nel caso di Francesca molti critici optano per la seconda lettura, al punto che Umberto Bosco e Giovanni Reggio escludono categoricamente che i due amanti siano stati sorpresi e uccisi nel momento stesso del palesarsi del loro amore, mentre Robert Hollander arricchisce l'idea di una 'conversione' di Francesca all'amore basandosi sulla citazione del passo della conversione di Agostino (Confessioni VII, 12) veicolata dalla lettura della lettera ai Romani di San Paolo (13, 13-14, in cui si legge «nec ultra volui legere»), proponendo un'accattivante lettura di una Francesca condotta alla lussuria e alla dannazione da Paolo, un uomo che reca lo stesso nome di colui che, con le sue lettere, indusse Agostino alla purificazione e alla santità.
Quanto ad Ugolino, la faccenda è ancor più controversa, perché, se Francesco De Sanctis nega che Dante si riferisca all'antropofagia, le allusioni continue al 'divorare' presenti fin dall'apparizione di Ugolino e l'invito dei figli ad Ugolino stesso affinché si cibi delle loro carni sembrano l'ovvia conclusione del racconto, come sostengono altri critici e lo stesso Hollander, che, però, fa leva per la sua interpretazione sull'osservazione del commentatore Guido da Pisa secondo cui un uomo dell'età di Ugolino non avrebbe potuto sopravvivere per i sette giorni indicati nel dialogo con Dante, a meno di non essersi cibato dei corpi dei morti.
Di fronte a questa impossibilità di avanzare una lettura sicura, la conclusione più onesta e più ovvia sembra quella avanzata da Jorge Luis Borges nei suoi Saggi danteschi, che ricalca la posizione di Natalino Sapegno e che è stata recentemente ripresa da Susanna Fresko: quello che Dante ci vuole offrire non è una soluzione, ma un dubbio. Ugolino ha un'anima lacerata, fatta a pezzi come il cranio del suo nemico, dilaniata dalla consapevolezza della sofferenza inferta ai figli e, forse, dalla tentazione di sopravvivere cibandosi dei loro cadaveri.
Ugolino e Francesca sono pur sempre dei dannati e la condizione del dannato è quella del dubbio, del pentimento, del rimorso, di un dolore che strazia lo spirito e cui non si può offrire alcuna soluzione, perché non si può liberarsi dalla burrasca infernale, né fuggire dalla torre della Muda, così come dal Cocito. Ciò che continua a vivere nei peccatori consegnati alla voragine infernale è il dolore di un passato che non può essere cambiato e, infondendo in noi lettori l'impossibilità di dare una soluzione ad un fitto mistero, Dante ci suggerisce la complessità e il groviglio di queste anime senza pace. E lo fa evocando tale sofferenza attraverso due forse opposte e comuni a tutti gli esseri umani: l'amore e l'odio. 

Francesca e Ugolino: parole e silenzi speculari

Gustave Doré, Ugolino e i suoi figli nella torre

«Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa ondulante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo sognò Dante, e così lo sogneranno le future generazioni.» (J.L. Borges)
C.M. Articolo originale di Athenae Noctua. Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso del suo autore e senza citare la fonte.

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