Fondo
Li Causi, busta B fascicolo 86
-Al Signor Procuratore Generale della Repubblica
Presso la Corte di Appello di Palermo
-Al Signor Comandante la Legione dei Carabinieri di Palermo
Francesca Serio e Carlo Levi
Sono Francesca Serio vedova Carnevale, residente a Sciara (Palermo), madre di Carnevale Salvatore fu Giacomo, di anni 32, ucciso lunedì scorso, 16 corrente, poco lontano dal paese, in prossimità della strada che porta alla casa di pietre sita in contrada Giardinaccio.
Poiché un insieme di circostanze che qui di seguito esporrò dettagliatamente, mi inducono a ritenere con certezza che gli autori del delitto debbano ricercarsi tra gli esponenti della mafia di Sciara e di Trabia, e poiché le stesse circostanze mi fanno dubitare che gli agenti di polizia del luogo possono rompere l’omertà che circonda il delitto, e pervenire quindi all’identificazione dei colpevoli, sono venuta nella determinazione di rivolgermi alle Signorie Loro per pregarLe di intervenire energicamente e sollecitamente nelle indagini richiamandole presso i Loro uffici.
Anzitutto intendo precisare che il mio povero figlio non aveva da tempo altri rancori se non quelli che potevano derivargli dall’attività sindacale svolta in favore dei braccianti disoccupati del Paese, né ebbe mai rapporti con la giustizia, se non in occasione delle occupazioni simboliche delle terre incolte, da lui promosse ed organizzate, e delle quali riferirò dettagliatamente.
Fin dall’epoca della Liberazione, mio figlio prese ad interessarsi dei movimenti politici di sinistra, ed a propagandare, in occasione delle varie elezioni, la lista del Blocco del Popolo, simboleggiata dall’effige di Garibaldi.
Nel 1951 fondò a Sciara la sezione del Partito socialista Italiano, che ospitò, per un certo tempo in casa propria, e nel contempo si diede a riorganizzare la locale sezione della Camera del Lavoro, da tempo inattiva.
Prima di questa iniziativa del mio figliolo, non esistevano a Sciara altre rappresentanze del Partito Comunista e Socialista.
Nel 1952 mio figlio cominciò a riunire e ad organizzare i contadini di Sciara, e li indusse a richiedere l’applicazione delle nuove leggi sulla ripartizione dei prodotti agricoli.
Preciso che tutti i terreni vicini al paese di Sciara sono di proprietà della principessa Notarbartolo, e vengono in prevalenza coltivati ad uliveto, ma sotto gli alberi di ulivo viene coltivato il grano. Prima che mio figlio promuovesse le agitazioni dei contadini di Sciara, si usava che il raccolto del grano venisse diviso secondo le vecchie proporzioni, mentre rimaneva per intero attribuito alla proprietaria dei terreni il raccolto delle ulive, che veniva per altro affidato ad elementi di altri paesi vicini, prevalentemente di Caccamo.
Pertanto, i contadini furono indotti da mio figlio a chiedere la integrale applicazione della legge, e quindi la raccolta delle ulive fosse affidata agli stessi contadini che coltivavano il grano, e che quindi il prodotto fosse diviso nella nuova misura stabilita dalle legge, cioè il 60% ai contadini, e il 40% al proprietario.
Queste agitazioni ebbero esito favorevole, e si conclusero con un accordo di compromesso con l’amministrazione della principessa di Sciara, per cui le ulive furono concesse agli stessi contadini che coltivavano la terra, e il prodotto fu diviso nella proporzione del 55% ai coltivatori e del 45 % alla proprietaria, mentre il grano fu diviso nella misura del 60% al coltivatore e del 40% alla proprietaria.
Tutte le trattative, nel corso dell’agitazione, furono svolte con l’avvocato Marsala, che ha lo studio in Termini Imerese, e cura gli interessi della principessa Notarbartolo di Sciara.
A questo proposito ritengo opportuno riferire il seguente episodio: nel corso delle predette agitazioni, l’avvocato Marsala, invitò mio figlio presso il suo studio, e tentò di indurlo ad abbandonare la lotta intrapresa, promettendogli, in tal caso, tutte le olive che avesse voluto.
Mio figlio respinse l’offerta e andò via, ma quando pochi giorni dopo tornò dal predetto avvocato Marsala, presiedendo una commissione sindacale composta, oltre che da lui, da Lodato Salvatore e da Tardibuono Mariano, l’avvocato, ancora risentito per la risposta ricevuta, rifiutò di riceverlo e volle parlare solo con gli altri due.
L’agitazione, comunque, si concluse con il successo già detto. Successo che danneggiava soprattutto i mafiosi di Sciara, tutti occupati come soprastanti e campieri presso l’amministrazione della principessa. La mafia, quindi, oltre che danneggiata economicamente, si ritenne offesa nel suo prestigio, in quanto non era riuscita, come nel passato, a imporre il sopruso di non fare applicare la legge.
Questo primo successo incoraggiò i contadini del mio paese, i quali si strinsero più numerosi attorno a mio figlio, che subito dopo, analogamente a quanto da tempo avveniva in altri paesi, intraprese la lotta per la concessione delle terre incolte e mal coltivate.
Così, nell’ottobre del 1952 una numerosa colonna di braccianti di Sciacca, accompagnati dalle loro donne e guidati da mio figlio, occupò simbolicamente le terre in contrada Giardinaccio, di proprietà della principessa di Notarbartolo. Si trattò di una semplice dimostrazione, nel corso della quale nulla fu danneggiato. Mentre il corteo si accingeva a rientrare disciplinatamente in paese, fu fermato dal brigadiere comandante la stazione dei carabinieri di Sciara, che perquisì numerosi partecipanti.
Poco dopo, quando i contadini erano già rientrati nelle loro case, mio figlio, assieme ad altri dirigenti sindacali (Polizzi, Lentini, Terruso) fu invitato in municipio per discutere. Ma appena vi giunse venne tratto in arresto assieme ad altri ed inviato alle carceri di Termini Imerese, da dove fu liberato otto giorno dopo.
Mentre mio figlio si trovava detenuto nelle carceri di Termini Imerese, accadde un episodio che ritengo opportuno riferire: un certo Tardibuono Luigi, soprastante ed uomo di fiducia dell’amministrazione della principessa, mi incontrò in contrada Romeo e, dopo avermi chiesto notizie di mio figlio, mi disse: “ Lo vedi che ci guadagnò tuo figlio? Ora lui è in galera e gli altri si raccolgono le ulive!”
Salvatore Carnevale
Lo invitai ad occuparsi dei fatti suoi e proseguii per la mia via. Ma pochi giorni dopo, l’incontro si ripeté nella piazza del paese. Scendevo dalla corriera di Termini, dove mi ero recata a visitare mio figlio, lì detenuto, e fui nuovamente avvicinata dal predetto Tardibuono, il quale, dopo avermi chiesto notizie di mio figlio aggiunse: “Senti, io tuo figlio lo rispetto perché è degno di rispetto, ma tu digli che lasci stare i partiti ed avrà per lui la migliore tenuta di olive, e chi ha figli se li campa per conto suo. Se no sarà condannato!”
Ancora una volta respinsi energicamente il Tardibuono, che mi lasciò dicendomi: “Comu voli fari fa!”
Uscito dal carcere mio figlio, per migliorare le sue condizioni, e nella speranza di raggiungere una più stabile sistemazione altrove, accogliendo l’invito di alcuni amici, si recò a Montevarchi in Toscana, dove rimase circa due anni a lavorare.
Durante la sua assenza fu applicata la legge di riforma agraria, in seguito della quale furono scorporati all’amministrazione della principessa 704 ettari di terra. Di questi 704 ettari solo 202 ettari sono stati suddivisi in 45 lotti ed assegnati a contadini di Sciara.
Subito dopo, però, gli assegnatari furono oggetto di tutta una serie di “avvertimenti” di carattere mafioso: Croce Agostino ebbe il pagliaio bruciato, Ippolito Bartolo ebbe danneggiata la porta della casa colonica, e rubati attrezzi e alcune pecore, Serio Rosolino ebbe danneggiato gli innesti di pere e cardi, Baratta Calogero ebbe rubato il giunto dell’aratro, Siracusa Pietro ebbe rubate due pecore e poi quattro capre, Merlino Pietro ebbe rubato l’aratro.
Non so quanti di questi avvertimenti siano stati denunciati alla locale stazione dei Carabinieri. So, però, che Merlino Pietro, recatosi a denunciare il furto dell’aratro, fu quasi redarguito dal brigadiere che gli disse che la colpa era sua perché l’aveva lasciato incustodito, e lo invitò a tornare il giorno dopo per fare il verbale. Ma quello, non potendo perdere un’altra giornata di lavoro, non vi tornò più.
Comunque, durante l’assenza di mio figlio, cessarono a Sciara le agitazioni sindacali.
Mio figlio però tornò a Sciara il giorno 14 agosto dell’anno scorso, e subito riprese ad occuparsi delle lotte dei contadini e del suo paese, e poiché altri 500 ettari delle terre scorporate non erano state né lottizzate né assegnate, fu organizzata una nuova occupazione simbolica di queste terre, che ebbe luogo l’8 settembre successivo.
Anche questo secondo corteo fu organizzato e guidato da mio figlio. Tutto si svolse ordinatamente e senza danno per alcuno. Ma al rientro in paese il gruppo dei contadini fu fermato da alcuni carabinieri comandati dal tenente della stazione di Termini, il quale pretendeva che fossero a lui consegnate le bandiere. Mio figlio cercò di opporsi, ma fu minacciato con la pistola dal predetto tenente e fu costretto a consegnare la bandiera.
Anche per questo episodio mio figlio è stato denunziato all’Autorità Giudiziaria.
Frattanto, poiché era disoccupato, mio figlio si presentò al collocatore di Sciara, chiedendo lavoro. Dovette attendere parecchio tempo, ma infine fu assunto come manovale presso la ditta Di Blasi, che conduceva i lavori stradali di collegamento con il vicino paese di Caccamo.
Licenziato dopo due mesi, per esaurimento di lavoro, e quindi assunto dalla ditta Lambertini che ha in appalto i lavori in corso attualmente fra Termini e Trabia per la costruzione del doppio binario. Per procacciarsi la pietra necessaria per questi lavori, l’impresa Lambertini ha assunto l’appalto dello sfruttamento di una cava di pietra, situata appunto in contrada Giardinaccio, nelle terre di proprietà della principessa.
Lapide in memoria di Salvatore Carnevale. In primo piano a sx del lettore, Sandro Pertini
Ora appunto mio figlio fu addetto, come cavatore, presso la predetta cava in contrada Giardinaccio.
Ed anche in quelle circostanze intraprese appassionatamente la difesa dell’interesse dei lavoratori, organizzandoli ed esortandoli a reclamare l’applicazione della giornata lavorativa di otto ore (invece che di 11 come si faceva), che avrebbe consentito l’impiego dei 32 disoccupati di Sciara, e la regolare corresponsione delle paghe, da tempo non corrisposte.
Questa nuova attività oltre a creargli attriti con il capo cantiere e con i sorveglianti addetti alla cava, lo pose in contrasto con i mafiosi di Trabia, in gran parte interessati, come sub-appaltanti, ai lavori predetti per la costruzione del doppio binario e del relativo tronco stradale.
Questi lavori non possono proseguire speditamente se la pietra della cava non affluisce regolarmente.
Ora per imporre il rispetto della legge e quindi l’applicazione della giornata lavorativa di otto ore e la corresponsione delle paghe arretrate, mio figlio si recò anche dal brigadiere dei carabinieri di Sciara, che però si rifiutò di intervenire, dicendo che la questione non era di sua competenza.
Ma mio figlio non desistette dalla lotta, e anzi fece un comizio, durante il quale parlò delle giuste richieste dei lavoratori, e attaccò i mafiosi locali e quelli di fuori, accusandoli di schierarsi sempre contro gli interessi dei poveri.
Nello stesso periodo di tempo mio figlio scrisse una lettera alla Lega Edili di Palermo, invocandone l’aiuto per la risoluzione della questione.
Questi fatti accaddero nei primi giorni di maggio, ma non posso precisare la data [la lettera è in data 6 maggio, indirizzata al Sindacato provinciale].
Giovedì 12 maggio mio figlio si recò alla cava e indusse i lavoratori a scioperare e a non riprendere i lavori fino a quando non fossero state corrisposte le paghe arretrate.
I lavoratori aderirono ed abbandonarono il lavoro tornando in paese. Il capocantiere, poco dopo, giunse in paese, cercando di persuadere i lavoratori a ritornare alla cava ed assicurando che gli arretrati sarebbero stati pagati subito.
Pertanto il venerdì successivo si riprese il lavoro, ed anche mio figlio tornò alla cava. In quello stesso giorno si presentò in contrada Giardinaccio, mentre si lavorava, un maresciallo, di Termini, accompagnato da alcuni estranei, e seguito a distanza da un certo Mangiafridda. Il maresciallo, avvicinatosi a mio figlio, lo rimproverò aspramente, dicendogli: “Tu sei il veleno dei lavoratori”. Mio figlio rispose: “Se lei mi deve arrestare mi arresti, se no mi lasci lavorare, perché qua sono pagato per rompere pietre per otto ore al giorno”.
Intervenne il Mangiafridda e rivolto a mio figlio disse: “ Picca n’hai di sta malandrinaria” [“durerà poco ancora questo tuo atteggiamento malandrino”].
Questo incidente fu da mio figlio successivamente riferito ai suoi amici Russo Sebastiano e Tardibuono Filippo entrambi di Sciara. Il sabato successivo fu versato agli operai un acconto di lire seimila e fu promesso che presto sarebbero stati saldati gli arretrati. Dopo che l’agitazione fu iniziata, e qualche giorno prima dello sciopero, non posso precisare se di martedì o giovedì, accadde che mio figlio fu oggetto di altra grave minaccia, che io appresi in questo modo: la sera mio figlio tornato dal lavoro si mostrava stranamente nervoso e preoccupato, tanto che quasi non toccava cibo. Naturalmente, ansiosa per lui, cominciai a pregarlo perché mi confidasse ogni cosa. Ma mio figlio, evidentemente temendo le mie reazioni, o per non suscitare in me eccessive preoccupazioni, si rifiutava di
parlare.
Infine si decise a confidarmi quanto gli era accaduto, e cioè che, mentre rientrava a casa, proprio alle porte del paese, era stato richiamato da un caratteristico invito: “Psst! Psst”, e non si era voltato.
Tanto che l’individuo che voleva parlargli, lo chiamò per nome dicendogli: “Salvatore, sei diventato tanto superbo da non darmi retta?”.
“Io ho un nome – rispose mio figlio- e quindi non mi sono fermato fino a quando non mi hai chiamato con il mio nome”.
Allora il mafioso che l’aveva fermato prese mio figlio confidenzialmente sotto il braccio e gli disse testualmente: “Lascia andare tutto, ritirati, e avrai di che vivere senza lavorare, non ti illudere perché se insisti finirai con il riempire una fossa!”.
Mio figlio, più irritato che intimidito dalla minaccia evidentemente rispose: “Io non sono un disonesto e non voglio regali, se dovete ammazzarmi, fatelo pure, ma chi ammazza me, ammazza Gesù Cristo”.
Naturalmente, saputo l’episodio, insistei moltissimo con mio figlio perché mi confidasse anche il nome del mafioso che lo aveva minacciato, ma mio figlio che pure l’aveva certamente riconosciuto, non volle confidarmelo, e infine mi assicurò che la domenica successiva intendeva fare un comizio, durante il quale avrebbe riferito il fatto e indicato il nome del mafioso che lo aveva minacciato.
La domenica successiva, 15 maggio, si celebrò in Sciara la festa del santo Patrono e poiché era stata presa l’iniziativa di sospendere, in quella occasione, tutti i comizi, mio figlio rinviò anche il suo, ma, sempre più preoccupato, volle recarsi a Termini Imerese per chiedere aiuti a quei dirigenti sindacali, Il lunedì mattina mio figlio fu trovato morto nelle circostanze risapute.
Io appresi nelle prime ore del mattino che un cadavere era stato trovato lungo la strada che portava alla cava, e, come altre donne, mi precipitai nella via, per avere maggiori dettagli. Le pietose bugie di alcuni congiunti, che pur assicurandomi che non si trattasse di mio figlio, cercavano di dissuadermi dal recarmi sul posto, lungi dal tranquillizzarmi fecero nascere in me i primi dubbi sull’accaduto. Notai che un certo Paci, anche lui in ansia per le sorti del figlio operaio alla cava, aveva chiesto e ottenuto da Mangiafridda di essere accompagnato con la moto sul luogo dove giaceva il cadavere. Io mi avviai, a piedi, sola, sfuggendo a coloro che cercavano di trattenermi. Appena fuori dal paese mi imbattei di nuovo nel nominato Mangiafridda che tornava sulla moto, recando nel sedile posteriore il Paci.
Li fermai, chiesi loro se avevano visto il cadavere, se lo avevano riconosciuto. Mangiafridda mi rispose: “Ti giuro che non l’ho riconosciuto”. Paci, invece, mi disse: “Non ho potuto vedere bene il cadavere. So soltanto che non è mio figlio”.
Proseguii per la mia strada e, poco dopo, da lontano, dalle scarpe, da un po’ di calze che si intravedevano sotto la stuoia che copriva il cadavere, ebbi la certezza che l’ucciso fosse mio figlio.
Questi i fatti e le circostanze che hanno preceduto l’assassinio della mia creatura.
Questi i motivi per i quali ritengo che sia opportuno che le indagini siano condotte direttamente dagli uffici di Palermo, e sottratte all’ambiente locale, tristemente dominato dalla mafia.
E’ necessario che tutti coloro che sanno vengano incoraggiati a parlare, e parleranno solo se si renderanno conto che le indagini sono affidate a buone mani, e che la loro incolumità non corre pericoli. Per questo ho deciso di affidare la mia denuncia alle Signorie Loro, ripromettendomi di tornare nei loro Uffici tutte le volte che avrò occasione di apprendere notizie utili alle indagini.
Confido che giustizia sia fatta, ed in coscienza ritengo di aver dato il mio doveroso contributo, riferendo tutto quanto so in ordine al delitto.