Mentre lo spread tocca quota 530, è bene non distrarsi rispetto alle medicine sbagliate in preparazione presso la farmacia del governo Monti, poiché queste non faranno altro che aggravare la malattia. Tra queste medicine controproducenti, la riforma degli incentivi alle imprese nell’ambito della spending review.
Il prof. Giavazzi è stato incaricato dal governo di rivedere gli incentivi alle imprese nell’ambito della spending review. Dopo alcuni mesi di alacre studio, il docente della Bocconi ha partorito la seguente, originale, ipotesi: ridurre le tasse sulle imprese per 10 miliardi di euro e contemporaneamente tagliare i sussidi per la stessa cifra.
Anche il più ottuso studente delle scuole elementari, seppur spaventato dall’imponenza delle cifre, capirebbe che 10 miliardi meno 10 miliardi fa zero, e che quindi non vi sarebbe nessun risparmio per lo Stato. Alle scuole medie già incomincerebbe a chiedersi perché lo Stato intenda risparmiare su scuola, sanità, pensioni, ma non sui trasferimenti alle imprese. Ma, si sa, ci sono figli e figliastri.
Comunque sia, noi che da keynesiani non siamo contro le imprese – tutto il contrario – pensiamo che lo Stato debba aiutarle, tanto più in un momento di crisi come questo, affinché creino occupazione e reddito, contribuendo alla crescita dell’economia nazionale.
Il problema è come. In un periodo di crisi, come quello attuale, qualsiasi spesa contribuisce ad alleviare le sofferenze della depressione. Persino pagare qualcuno per scavare inutili buche nel terreno. Se credete che questa sia una misura assurda, da vecchi ultrakeynesiani, e che un vero liberale non potrebbe mai accettarla, allora guardate i dati di traffico tra Italia e Francia e chiedetevi se il tunnel della TAV in Valsusa, di cui tanto si discute, non sia appunto una inutile buca nel terreno, mentre con la stessa cifra si potrebbe fare qualcosa di ben più utile e con un impatto occupazionale decisamente maggiore. Tanto più che le nostre risorse sono fortemente limitate, non avendo la possibilità di monetizzare i deficit pubblici.
In un periodo di crescita, invece, lo Stato dovrebbe orientare la sua spesa nel modo più efficace possibile. Da oltre un decennio, però, il nostro paese ha esplicitamente rinunciato a incentivare selettivamente la produzione. Sparita la “programmazione economica” prima nei fatti con le leggi Tremonti e Visco, poi addirittura nella nomenclatura del Ministero preposto e degli strumenti di politica economica, lo Stato ha lasciato al mercato – cioè ad una istituzione formata da soggetti scoordinati, e quindi largamente inefficienti nel loro complesso – un potere crescente di determinazione del “come” e “in che cosa” investire. Il risultato è stato che il nostro paese ha accumulato ritardi crescenti nell’innovazione tecnologica, nelle energie alternative, e in una miriade di altre cruciali attività. Ma, per lo meno, lo Stato ha finora cercato di fare in modo che il “quanto” ricevesse uno stimolo da parte dell’autorità pubblica, attraverso incentivi che premiavano appunto l’investimento, piuttosto che il risparmio.
Il prof. Giavazzi vuole andare ben oltre. Trasformare gli incentivi ad investire in tagli alle tasse sui profitti significa eliminare anche questa residua funzione di orientamento del mercato da parte dello Stato, nell’interesse pubblico. Gli effetti sono facili da prevedere. In caso di aspettative negative, le imprese tenderanno a investire ancor meno di quanto facciano oggi. Minori investimenti significheranno minore domanda, minore occupazione e minor reddito. E, alla fine, minor reddito significherà minori entrate per lo Stato.
Non migliori saranno gli effetti in un periodo di crescita. L’imprenditore, non più orientato dallo Stato all’investimento produttivo, troverà ancor più conveniente riversare i profitti nelle attività finanziarie, poiché spesso assicurano rendimenti maggiori con un minore sforzo e, in nome di una precisa concezione del libero mercato, sono il più delle volte tassate in modo irrisorio rispetto al reddito da lavoro e d’impresa. E sappiamo dall’esperienza recente quanto il gigantismo della finanza renda instabile il sistema economico.
E’ pur vero che il prof. Giavazzi sostiene che i residui incentivi saranno più mirati. Ma, come ha già ammesso, ciò significherà in primo luogo tagliare i finanziamenti alle imprese nel Sud. Se da un lato è vero che i finanziamenti pubblici sono stati spesso usati in modo pessimo, o addirittura criminale, è altrettanto vero che riducendoli o eliminandoli la situazione non migliorerà, ma si favorirà il processo di desertificazione industriale e imprenditoriale già in corso. Piuttosto che ridurli o cancellarli, quindi, andrebbero davvero sottoposti ad una “review” qualitativa, dopo la quale potrebbero persino aumentare in termini quantitativi.
Insomma il professor Giavazzi, con una piccola riforma “a costo zero”, vuol cambiare in modo radicale e difficilmente reversibile la nostra politica economica: vuole cioè cancellarla, eliminandone ogni residuo, cassando quei meccanismi che cercano di rendere meno drammatiche le conseguenze degli umori degli “animal spirits” del capitalismo. L’essenza del laissez faire, del liberismo, in fondo, è proprio questa.
Il titolo dell’articolo è un’ironica allusione al titolo dell’edizione italiana di un noto libro di Hyman Minsky, “Keynes e l’instabilità del capitalismo”
p.s. Domenica il Corriere della Sera ha pubblicato un editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi in cui, tra le altre cose, si affermava che:
“Una delle ragioni dell’incremento della disuguaglianza che ha preceduto la crisi è stata la crescita del premio retributivo per chi ha accumulato capitale umano, cioè ha studiato. L’investimento in formazione ha reso di più e favorito chi poteva permetterselo. Non demonizzare la ricchezza quindi, ma offrire a tutti la possibilità di acquisire gli strumenti necessari.”
C’è qualche prova di ciò, ovvero che le disuguaglianze dipendono in misura significativa dal titolo di studio e quindi, almeno in parte, dal merito? Purtroppo per Giavazzi e Alesina, la risposta è no. Come mostrato in questo grafico, il reddito reale dei neolaureati negli Stati Uniti è stato calante negli ultimi 12 anni, ovvero dallo scoppio della bolla della new economy, mentre i costi per laurearsi nelle università più prestigiose sono schizzati in alto.
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