LA LUNGA NOTTE, di Emilio Tadini
(Rizzoli, 1987 – Einaudi, 2010) > pagine da oggi on line nell’archivio di Francesco Tadini
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(… …) Sfolgorava, Lugano — senza eccedere. Sulle facciate dei
grandi alberghi incominciava a aprirsi qualche finestra. L’aria
si era ripulita, con tutta quella pioggia, e la luce del sole
le passava attraverso senza fatica, calda nel fresco della prima
mattina, senza peso. Intorno, il verde, sui pendii, si era
alzato, era montato come un soufflé ben riuscito — gonfio,
soffice… Vele, sul lago, si inclinavano appena. Respiravano,
le Alpi. Mandavano giù brezze leggere… Sporgendosi
dalle terrazze dei caffè, camerieri guardavano verso il fondo
dei viali. In bilico fra nord e sud, senza cadere, sospesa,
Lugano risplendeva quietamente.
Avevano sfilato, loro, per la città. Incongrui, fuori luogo
— ancora bagnati fradici. Le otto del mattino… Un corteo
che qualche sguardo lo attirava. Quattro giganti con la
barba lunga e voci rumorose che spingevano una carrozzina
con dentro un bell’uomo semidistrutto, una mano guantata
di nero, sempre in posa, e l’altra tutta contorta e, come
se non bastasse, male addormentato, la bocca aperta e la
testa ciondolante. E, dietro, con addosso anche lei una incerata
nera, una bellissima donna con i capelli troppo corti,
che riusciva nonostante tutto a sorridere, battendo forte le
suole sull’asfalto del marciapiede e voltando la faccia dalla
parte del sole e subito dopo intenta ad assistere il suo mezzo
morto. Gli tirava la coperta sulle mani, gli pettinava il ciuffo…
Avevano attraversato la città, lungo il lago. Poi, continuando
a parlare fra loro a voce alta e dandosi il turno non
per stanchezza ma per gioco, i quattro giganti avevano spinto
la carrozzina su per un viale in salita.
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La clinica si chiamava Campi Elisi. Il sole faceva scintillare
la targa di ottone lucidato. Il parco era molto grande,
con alberi enormi, simili a un gruppo di elefanti al pascolo,
silenzioso. Un giardiniere, sul prato, tagliava l’erba
con forbici molto piccole. Li aveva guardati senza smettere
di lavorare, cercando di non farsi notare. Lo spiazzo davanti
alla clinica era coperto di ghiaia. L’avevano appena riordinata,
si vedevano i segni del rastrello — lunghe righe parallele…
«Perfettamente!» aveva detto l’impiegata in camice bianco.
Aveva messo il passaporto del Comandante dentro un
fascicolo già preparato. «Perfettamente!» Era efficiente e ossequiosa.
Piccoli sorrisi, raffinati e superflui, le correvano
sulle labbra, a intervalli regolari. Scivolava silenziosamente
sul pavimento di linoleum. Scarpe di pelle bianca. Paralumi
bianchi…
«Una classe! E noi… Pensi, me ne sono accorta appena
siamo entrati, appena ci siamo trovati al chiuso. Puzzavano,
i miei contrabbandieri! Non può neanche immaginare
come puzzavano. Dopo quella nottata, passata a arrampicarsi
su per la Val d’Intelvi con la carrozzina sulle spalle,
e, dopo, a scendere in mezzo al bosco, con tutta quella pioggia
e senza vedere nient’altro che le luci di Campione, lontanissime…
Come pecore, puzzavano. E forse un po’ puzzavo
anch’io. Ma lei, l’impiegata della clinica, niente. Sorrideva,
gentilissima… “Signori, per di qua. Vogliono accomodarsi?”
Signori! Aveva finito per mettermeli in imbarazzo,
i miei quattro contrabbandieri, con quei modi eleganti.
Andar fuori, volevano. Aspettare in giardino.
«Certo, gli svizzeri… Un ordine, una tale pulizia… Non
sembrava una clinica. Un albergo di lusso, ecco! I fiori sul
comodino, la musica… E la stanza! Grande, bene arredata
— con una terrazzina che dava sul parco, la vista sul
lago…
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«Spingendo la sedia a ruote l’ho portato sulla terrazza.
Mi ricordo che era una giornata… E finalmente il Comandante
si è svegliato. Incominciavo a pensare che non si sarebbe
svegliato più, con tutti i calmanti che gli avevo dato…
Si è svegliato, e si è guardato intorno, e subito mi ha
cercata… “Hai visto?” gli ho detto. “Qui sei al sicuro, qui
ti cureranno… ” Lui sembrava felice, per la prima volta dopo
tanto…»
Poi era entrata nella stanza l’infermiera. Era grande, robusta
— un gran corpo pacifico che sosteneva una testa scompagnata,
magrissima, molto tesa. Parlava italiano benissimo,
quasi con eccessiva precisione. E subito dopo i saluti…
«Prego! Ora il signore si lava!» E se lo era preso in consegna,
il Comandante, con grande fermezza. Aveva guardato
Sibilla sorridendo — un sorriso dolcissimo che sembrava
esitare a fermarsi su quella faccia drammatica. Poi Sibilla
l’aveva vista andare verso la stanza da bagno con il Comandante
fra le braccia, rannicchiato come un bambino, la testa
su quel seno grande come un cuscino e senza dubbio altrettanto
morbido, l’occhio stupefatto…
* * *
La miglior fisioterapista di tutta Europa — avevano spiegato
a Sibilla in segreteria. La più abile. Un corso, addirittura,
in psicologia, a Zurigo. A pieni voti. E poi, fisioterapista…
Molto, molto di più! L’unità, rispettava, lei, del malato
— la figura fisio-psichica. Sui muscoli, lavorava, e sugli
stati d’animo — come un pianista, al pianoforte, sui tasti
bianchi e neri. Certo, quell’aria robusta, quella prestanza
fisica… Ma era anche molto ma molto intelligente!
I successi, le avevano elencato, a Sibilla — i più clamorosi.
Il brasiliano, per esempio. Probabilmente il suo capolavoro.
Che era arrivato — un self-made man, un miliardario
— poco più vivo di un’alga. Lo tenevano in una specie
di scatolone, tanto per dare un’idea, con motore elettrico
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e ruote. Imbottito, con il coperchio trasparente e tutto.
Una specie di caravan — lussuosissimo, lavabile…
Niente: praticamente uno zombi, il brasiliano, nella sua
custodia. U n respiro ogni morte di vescovo — lungo lungo,
straziante, come un lamento dal fondo di un pozzo profondissimo…
A sentirlo, le infermiere più giovani scappavano
via tappandosi le orecchie. E lei, in un anno — che era già
un miracolo — era riuscita a farlo parlare. Il minimo, ma
insomma… «Saluti cordiali!» «Buongiorno, buonasera!» E
tutto con molto garbo e in perfetto portoghese. Perché lei
parlava cinque lingue. E in altri sei mesi lo aveva messo in
condizioni, il miliardario brasiliano, di giocare a palla. Che
ci si era appassionato. Pare che non facesse altro, adesso,
a Recife, davanti a parenti entusiasti — in una villa, che
aveva, con un parco grande come mezza Lugano. Giocava
a palla, salutava educatamente… Per ore e ore, instancabile.
Un fiato, gli era venuto! Una tale joie de vivre!
E il violinista? Avevano fatto vedere a Sibilla la fotografia.
Un vecchio ascetico e biondissimo, con un sorriso sul
sarcastico… Si era paralizzato, a quanto pare, proprio al culmine
del suo trionfo, durante un concerto, al quarto bis, lì,
come un manichino, sul palcoscenico, in una pausa interminabile
— con i primi mormorii, tra il pubblico, dopo due
minuti buoni, per non far la figura di quelli che non conoscono
il pezzo. Poi, sgomento. Irruzione in palcoscenico…
Rigido, stava, in posa. Statua di violinista. Per quanti sforzi
avessero fatto, non erano riusciti a togliergli il violino dalle
mani — la moglie, che il problema tecnico, se non altro,
aveva finito per distrarla, in quella tremenda circostanza,
il direttore, i macchinisti… Tira, molla… A niente, era servito.
Era arrivato in clinica, la mattina dopo, tale e quale,
con i l violino incorporato. Sembrava un caso senza speranza.
A Berna, a Zurigo, a Losanna lo avrebbero intubato e
messo in cantina. Per modo di dire, naturalmente. M a i n somma,
si sarebbero arresi. Lei lo aveva sbloccato usando
in pratica soltanto le parole. Senza neanche toccarlo con un
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dito. Lo varava in piscina, lo ormeggiava con cura, gli parlava…
E sottovoce — che nessuno era mai riuscito a capire
che cosa diavolo gli stesse dicendo. Fatto sta che adesso lui
era tornato ai concerti. E aveva dimenticato tutto — la malattia,
le cure… Come se non fosse successo niente. Come
prima, perfetto. Persino il sorriso un po’ sarcastico. L’unica
cosa è che negava i bis.
E l’arabo? E il trasvolatore? E lo «Scheletro irlandese»?
Sui giornali! C’erano tutti i ritagli a disposizione, in biblioteca.
Un pacco così! Che solo maschi, pare, trattava. Questioni
fisio-psichiche, è probabile. Dunque, stesse tranquilla,
Sibilla. Il Comandante era in buone mani.
Era, quell’infermiera, il meglio del meglio, il non plus
ultra. Professori, le scrivevano, da tutto il mondo, per chiederle
consiglio, più o meno esplicitamente. Tutta la gamma.
Da «Se, per assurdo, un suo paziente presentasse i sintomi
seguenti…» fino al «La prego, mi aiuti!» sottolineato
due volte.
Le avevano offerto, per attirarla altrove, cifre folli, ingaggi
da giocatore di calcio. Ma pare che adorasse, lei, Lugano.
«La clinica è la mia casa, la mia famiglia gli ammalati!
» E in tutti quegli anni aveva lasciato Lugano soltanto una
volta, per il corso di specializzazione a Zurigo. Ma da Zurigo
aveva spedito una lettera al giorno. Clinica Campi Elisi.
Senza altro indirizzo. Lugano. «Il tuo silenzio, la tua serenità,
il fervore pacificato del lavoro…» Alla Clinica, parlava
— personificata. Era appesa, una di quelle lettere, in direzione,
sotto vetro.
Ai Campi Elisi era arrivata molti anni prima. Senza bagagli,
a parte una valigia — e senza dire da dove veniva.
Spaventata, scontrosa, e molto magra. E voci erano corse,
è naturale. Buone e cattive. Una evasa, una granduchessa
russa… Parlava così bene tutte le sue cinque lingue che era
difficile dire quale fosse proprio la sua. Anche questo favoriva,
tra curiosi e invidiosi, supposizioni di ogni tipo. «E una
ex suora, badessa di un convento nei Grigioni… No: una
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rivoluzionaria messicana…» Che aveva partecipato addirittura
al complotto per assassinare Trotzky, si era arrivati a
dire — con qualche fermento nella colonia anarchica di L u gano.
..
Frottole, tutte frottole. Chiamata in direzione, al direttore
— allora era un terziario francescano, uno minuscolo,
austero — lei aveva detto soltanto:
«Sono polacca. Posso soltanto giurarle sul mio onore che
non mi sono mai sottratta all’obbedienza alle leggi umane
e divine! Ho bisogno soltanto di lavoro e di silenzio. E vorrei
riuscire, qui, a pregare. Forse pregherò con il mio lavoro.
..».
Il direttore le era saltato al collo, restandoci appeso…
«Io le credo!»
* * *
Non la finiva più, Sibilla, con l’infermiera svizzera. Ma
la esaltava, era evidente, mettendoci un eccesso di intensità
— come se una parte di quell’intensità, la parte sovrabbondante,
e la maggiore, fosse investita per convincere se stessa,
una buona volta, del reale valore di quella donna eccezionale,
e addirittura della sua bellezza.
«Quel contrasto… La faccia così magra — e invece il corpo…
Perché doveva avere un corpo molto bello. Robusto,
muscoloso, ma anche agile… E poi, quando sorrideva…»
Un disgelo, a quanto sembrava. Una primavera improvvisa.
Sibilla andava sul poetico, e ci teneva a farmelo notare.
Un sorriso…
«Eppure, quando era seria — quando era normale…
Un’altra persona! Faceva soggezione. Quasi dura. Veniva
da parlarle sottovoce. Io le ho sempre parlato sottovoce, nei
due giorni che sono rimasta a Lugano…»
Che Sibilla fosse rimasta a Lugano soltanto due giorni
mi sembrava un po’ strano. Non poteva fermarsi in quella
dolce e fastosa terra di nessuno, al riparo da forbici e altri
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rischi? Perché non era rimasta lì a coccolarsi il suo Comandante,
a controllarne i progressi? I Soldi-in-Svizzera — i famosi
soldi in Svizzera sognati con ostinazione e abbandono
dal Po fino alle Alpi , nel corso di digestioni laboriose o di
altrettanto laboriosi digiuni — non le mancavano certo. Nei
suoi viaggi diplomatici, quando era ancora padrone di tutti
i suoi nervi, tendini e muscoli, il Comandante doveva averci
pensato. Era un rischio, per Sibilla, tornare. Il maestrino,
i suoi «Tornerò, torneremo…». Quel freschino che ogni
tanto lei risentiva sulla testa…
«Dunque, dovevo tornare in Italia. Così, sono andata
dall’infermiera e, parlandole sempre sottovoce, le ho detto:
” Io devo tornare in Italia. E fuori discussione. Allora glielo
lascio. Adesso è suo”. Così, le ho detto. Precise parole. Chiaro,
no?»
La mano sullo schienale della sedia a ruote… “Glielo
lascio!” Una specie di passaggio di consegne… No: un diritto
di proprietà affermato e dimesso nello stesso preciso momento,
per il bene e a totale vantaggio del posseduto — ceduto
o dato in prestito che fosse. Qualcosa del genere. Stando
alle sue parole, almeno, stando a quello che Sibilla mi raccontava.
Con quel povero disgraziato del Comandante che
per sfogarsi poteva soltanto implodere furiosamente, e che
doveva starsene zitto e buono proprio mentre veniva spietatamente
trattato come una cosa per la seconda stramaledetta
volta in pochi mesi — la prima volta da quel fulmine
a cielo non troppo sereno che era stata la malattia, e la seconda,
adesso, da questa specie di trattativa freddamente
isterica celebrata in pochi sussurri sopra la sua povera testa
ciondolante da quelle due donne.
«”Lei ed io vogliamo il suo bene — non è vero? Lei lo
vuole quanto me, voglio dire. E io so che adesso il Comandante
è in buone mani. E non solo professionalmente.” Così
le ho detto!»
Con l’infermiera che non aveva risposto una parola a
tutto quel sottovoce che stava andando un po’ sull’intimo.
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Era rimasta ferma in mezzo alla stanza, nella sua abbagliante
divisa bianca, la faccia gotica sospesa sopra il solido seno
da balia, le braccia, muscolose, conserte.
«Sono andata a salutare il Comandante, il pomeriggio,
prima di partire. La stanza era piena di sole. Prima, primissima
categoria. Li valeva tutti, quella stanza, i franchi
che ci costava. Il sole che entrava attraverso le tende, e i
fiori, la musica… Ritmo sinfonica, credo…
«L’infermiera stava vicina al letto. Teneva una mano sulla
spalla del Comandante. Lui borbottava qualcosa, mi guardava
fisso… Era ben pettinato, sbarbato di fresco. Aveva
un pigiama bianco. Non era uno dei suoi, di quelli che avevo
portato nello zaino con l’altra sua roba, compresa, non
so neanch’io perché, la divisa — che avevo voluto portarla
io, la sua roba, a rischio di rompermi una gamba, con il
peso dello zaino sulle spalle… Ma stava molto bene, il Comandante.
C’era una tale aria di efficienza, tutto intorno!
Una specie di pace, ma garantita… Non la cosa di un momento
— non il momento magico, per dire… No: quell’eternità
in versione svizzera
«Ho detto all’infermiera: “Lo chiami Comandante”.
Poi, nel salutarlo, non sapevo bene quale mano toccargli —
quella di legno, attaccata al braccio ancora vivo, o l’altra,
scarnita, pelle e ossa… Non mi sono decisa. Gli ho messo
anch’io la mano sulla spalla. Poi sono corsa fuori. Ho detto
soltanto, non so bene a chi dei due, ” M i raccomando!”.
E sono scappata.»
* * *
«E stata una specie di passeggiata in montagna, il ritorno.
Una notte bellissima. Un lago dopo l’altro, dall’alto, con
tutte le luci… Un planetario! Un po’ in estasi, senza nessuna
fatica… I miei quattro banditi mi prendevano per mano,
a turno. Ma dal mattino del primo giorno, a casa, ho
incominciato a darmi da fare.
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«Prima di tutto, una bella pulizia generale. Mi ero un
po’ lasciata andare, con il Comandante malato. E ho incominciato
proprio con la sua stanza. Aria! Ho spostato i mobili,
ho scopato, spolverato, lavato con il lisoformio… La
donna mi aiutava, e lavorava — ma a me sembrava che si
muovesse al rallentatore. O forse ero io che mi muovevo come
nelle comiche al cinema — quella fretta…
«Tutto, ho ripulito. Con un entusiasmo, una furia… E
stato una specie di balletto. Un gioiello, la casa, una stanza
dopo l’altra! Tutto rimesso a nuovo, dal solaio alla cantina.
Persino gli scheletri della sua collezione, uno per uno, osso
per osso, ho lucidato. Occhiaia per occhiaia, li ho raschiati.
«I tappeti l i ho stesi fuori, nel parco, sull’erba, a respirare.
Sembrava, il parco, un salone arredato, scoperchiato.
Ci mangiavamo, a mezzogiorno, fuori — io e la donna. Un
panino, un bicchiere di vino… I l tempo di tirare il fiato —
e poi via, a spazzare, a spolverare, a lucidare…
«Fuori della porta si è accumulata una valanga di rifiuti
alta così. Sono venuti a portarli via con il camioncino. Due
viaggi, tre — chi se ne ricorda? Se ne ho buttata via, di roba!
Scatoloni di libri sfasciati, balle intere di stracci… Quasi
tutta roba, fra l’altro, del vecchio proprietario. Vestiti fuori
moda, stoviglie scompagnate… Conservavano tutto, a quanto
pare. E poi… Bel risultato! Al dunque, avevano dovuto
partire in fretta e furia portandosi dietro un paio di valigie,
e neanche troppo grandi.
«Un mucchio di roba l’ho data alla parrocchia. Certo
che un po’ di malinconia l’ho provata, a vedere quelle cose
di nessuno, buttate lì all’aperto… Ma era ora di far pulizia.
Aria! Aria!» (… …)
Emilio Tadini
Emilio Tadini
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Francesco Tadini invita a seguire, poi, i programmi di Spazio Tadini: l’associazione culturale non profit di Milano diretta e organizzata da Melina Scalise (ne è l’attuale presidente). Melina Scalise, per Spazio Tadini e per l’archivio, realizza anche tutte le pagine on line (compreso questa stessa). Spazio Tadini, dal 12 aprile al 5 maggio, terrà in galleria la mostra di Giancarlo Nucci: una selezione di opere realizzate dall’artista dal 1989 ad oggi a rappresentare fatti che hanno fatto storia e che hanno lasciato una traccia indelebile anche nella quotidianità dell’uomo contemporaneo, tra le quali il crollo delle torri gemelle.
Sempre dal 12 aprile al 5 maggio a Spazio Tadini - informa Melina Scalise che ha fonfdato qualche anno fa l’associazione con Francesco Tadini – si terrà la mostra PROMENADE: Spazio Tadini per il Photofestival - rassegna milanese - ha scelto un progetto che promuove la fotografia italiana all’estero con una galleria web: Fotonomica. E’ una novità sul piano del rapporto tra professionisti del settore perché costituita da soli fotografi che “lanciano” altri fotografi.
Questo il LINK al blog di Spazio Tadini
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Francesco Tadini saluta ed è grato a tutti i visitatori e consiglia la lettura del testo – parte di una pubblicazione di dieci anni fa edita dopo la morte di Tadini – che raccolse i contributi di decine di amici di Emilio Tadini. Giovanni Raboni, da Torno subito, dedicato a Tadini: LINK
Francesco Tadini, ricordando di recarsi a visitare tutte le mostre di Fondazione Marconi (ex Studio Marconi, fondato da Giorgio Marconi, storico gallerista di Tadini, che, ora, ha “riaperto” anche StudioMarconi 65 che sarà presente anche al MiArt 2012), in ultimo, sottopone il seguente LINK (un altro sito che raccoglierà materiale inerente all’archivio Tadini e alle attività di Spazio Tadini).
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Francesco Tadini
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