Spagna, oggi.
Il ventisettenne Juan Oliver soffre di violenti attacchi d’ansia – abbastanza violenti da lasciarlo, talvolta, privo di sensi: per questo, per evitare imbarazzanti reazioni emotive, si presenta con un giorno d’anticipo al carcere di massima sicurezza di Siviglia 2, dove dovrebbe prendere servizio come guardia. Ma lo stratagemma non funziona: accompagnato all’interno del carcere da due colleghi, Oliver viene colto da uno svenimento.
Decisi a non trasportarlo finché privo di sensi, i suoi accompagnatori lo stendono sul letto della cella 211, momentaneamente vuota.
È proprio allora che Malamadre, il detenuto più temuto dell’intero carcere, dà inizio ad una violenta rivolta.
Abbandonato dai colleghi, Juan Oliver non ha scelta: deve mescolarsi ai rivoltosi, o morire…
Opera prima del giornalista spagnolo Francisco Pérez Gandul, il romanzo “Cella 211”, uscito in Spagna nel 2004, è stato proposto ai lettori italiani quest’anno, parallelamente all’arrivo nelle sale dell’omonimo film di Daniel Monzón (uscito lo scorso 16 aprile).
Se la trasposizione cinematografica -pluripremiata sul piano internazionale- è costruita in maniera piuttosto stanca e tradizionale(1), lineare e a tratti poco ritmata, nella sua forma originale di romanzo, “Cella 211” può contare su una scelta narrativa decisamente inusuale: l’insieme dei fatti è ricostruito attraverso un’alternanza di punti di vista (la genettiana “focalizzazione interna multipla”(2)) che, dilatando indefinitamente i tempi del racconto, finisce per imporre ritmi di lettura forsennati.
Si aggiunga a questo che le voci narranti -tutte caratterizzate da elementi e registri personali, dalla violenta e insultante brachilogia di Malamadre, al formale (ma dolente) “rapporto” di Armando, passando per il divagare pacato e familiare di Oliver- sono (ri)costruite con grande realismo; che l’intreccio solido, credibile (a dispetto della trovata iniziale, a dir poco “fantasiosa”), e sostenuto da un’inattesa ferocia politica(3), recede, in ultimo, sullo sfondo, lasciando spazio a una serie di temi e considerazioni profondamente morali -dalla facile simmetria tra carcerati e carcerieri, al ruolo del caso nella vita individuale, dalla “pervasività” del male alla violenza “giusta”, dagli orrori della repressione al desiderio di vendetta-, e si avrà una visione d’insieme di “Cella 211”: uno degli esordi “dell’anno”, forse destinato ad agitare -almeno per un po’- con la sua scelta narrativa originale, difficile, perfetta, le acque -sempre troppo chete, e segnate da un discreto conformismo- del panorama poliziesco internazionale.
Semplicemente imperdibile.
Il romanzo “Cella 211”, di Francisco Pérez Gandul, è edito in Italia da Marsilio.
(1)Mi limito a segnalare la perdita di originalità, per tacere delle piccole incongruenze generate, (talvolta inutilmente, in maniera del tutto gratuita), nel passaggio da un media all’altro, probabilmente nel tentativo di facilitare la fruizione ad un pubblico cinematografico ritenuto “meno preparato”.
(2)Il passaggio da un punto di vista all’altro è deliberatamente utilizzato in funzione “parallittica”, per creare improvvisi restringimenti, o piuttosto spostamenti della prospettiva, che si rivelano, curiosamente, più utili alla costruzione della suspence che a quella dei prevedibili “effetti sorpresa”: il lettore, che ha intravisto “il pericolo”, si ritrova improvvisamente catapultato “all’interno” di un personaggio ancora all’oscuro di tutto, ed è così costretto a rincorrere il successivo spostamento…
A mantenere viva l’attenzione contribuiscono, poi, le anacronie create dall’asimmetrico posizionamento dei narratori (due dei personaggi raccontano al passato, mente il terzo, si esprime al presente) elemento “dissonante” le cui motivazioni si fanno sempre più chiare man mano che il romanzo procede.
(3)Se Carlo Oliva nella sua essenziale “Storia sociale del giallo” indicava nella riflessione politica uno dei caratteri peculiari del poliziesco iberico, qui l’accento è tutto sulla dimensione morale; il motivo politico figura piuttosto in chiave negativa -come disimpegno sociale rispetto alle condizioni dei carcerati e dei loro parenti- o, incarnato nei tre malcapitati detenuti dell’ETA, come elemento sul quare far presa per vedere esaudite le proprie richieste…