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Free Karma Food, ovvero Riccardo Pedrini e la carne in scatola riciclata

Creato il 07 marzo 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Wu Ming 4 (Riccardo Pedrini)
e la carne Manzotin riciclata

di Iannozzi Giuseppe

Free Karma Food, ovvero Riccardo Pedrini e la carne in scatola riciclata
La palma per il romanzo più brutto apparso negli ultimi dieci anni spetta, senz’ombra di dubbio, a Wu Ming 5 (ovvero a Riccardo Pedrini che – dopo l’uscita dal collettivo nel 2008 di Luca De Meo aka Wu Ming 3 - è diventato Wu Ming 4 ) con il suo impossibile “Free Karma Food”: prima di lui solo Cesare Battisti era riuscito a scrivere l’incomprensibile.

Riccardo Pedrini ha voluto mettersi alla prova e ci è riuscito, ha letteralmente stracciato Cesare Battisti consegnando alle stampe un libro che dirlo brutto o strano o stranissimo è fargli un complimento troppo significativo. “Free Karma Food” si configura come un pasticcio di luoghi eventi cut-up: imitazione pallidissima degli stilemi à la W.S. Burroughs con contaminazioni avant-pop in un clima ballardiano. Come per i precedenti lavori di Wu Ming 5, anche in questo caso la narrazione è una girandola incomprensibile di eventi, che portano il lettore a un punto morto, dove è impossibile porsi domande o trarre conclusioni certe. Un lavoro che è soltanto incomprensibile.

Oltre i limiti dello splatter, un libro di eventi aggiustati malamente e compressi a forza in una scatoletta di carne riciclata: con “Free Karma Food” non c’è dubbio alcuno che il peggio di quella narrativa, che si spaccia per epica d’avanguardia, è (forse) solo alla sua alba.

Wu Ming 5, con presunzione stilistica quanto di contenuti, ha dato corpo a una narrazione che è un corpo morto in avanzato stato di decomposizione semantica e spazio-temporale. Siamo infatti di fronte a un coacervo di situazioni impossibili, che indarno Riccardo Pedrini cerca di cucire per un tessuto narrativo compatto: il risultato è il caos totale, una storia che solo serve a indicarci come non si dovrebbe scrivere. Wu Ming 5 dà infatti alle stampe il più insulso capitolo della recente narrativa portata negli scaffali delle librerie. Non che i lavori precedenti siano migliori: forse solo “Libera Baku ora” è la prova più felice, per quanto molto imperfetta, di Wu Ming 5. Il successivo “Havana Glam” marca lo stesso stile abborracciato che è in “Free Karma Food”, ma, nei limiti, in Havana è ancora possibile tentare di riannodare il filo di Arianna per uscire dal dedalo psicotico che investe ogni oscuro passaggio partorito dalla mente di Pedrini. Le proiezioni nel futuro inventate da Wu Ming 5 potrebbero risultare persino interessanti per un romanzo di science fiction che avesse la sola pretesa di divertire; purtroppo Riccardo Pedrini s’impegna per una narrativa che tenta indarno di evadere dai generi, e come tutto risultato soltanto un pasticcio ben peggiore di quello presente in“Havana Glam”.
Con “Free Karma Food” ci troviamo proiettati nel non troppo lontano 2025: la grande Morìa ha già fatto strage di uomini e cose, l’economia mondiale è sol più un pallido ricordo, ma anche un serpente che si morde la coda. Siamo in un mondo dickiano, gretto sporco allucinato: volendo si potrebbe adottare un aggettivo sin troppo abusato dalla moderna critica, psichedelico à la Jim Morrison. Ma bisogna stare attenti: il mondo che descrive Pedrini è un tentativo mal riuscito e mai emulazione psichedelica à la Jim Morrison. Il grande problema che affligge i sopravvissuti è il cibo, o meglio quel cibo che solo pochi satrapi si possono permettere. John Smith Jones, cacciatore di Central New York City, è il migliore sulla piazza, anzi è l’ammazzacarne: la carne umana è un cibo prelibato per pochi, e la regola è ‘uomo mangia uomo’. L’idea principe del terzo romanzo solista di Wu Ming 5 non è nemmeno poi troppo originale: gli zombie di A. Romero sono stati sostituiti da antropofagi Ma non sono una sorta di Hannibal Lecter (quelli di Thomas Harris), né sono sessuali come quelli del film scandalo “Trouble Every Day” (per la regia di Claire Denis, sceneggiatura di Jean-Pol Fargeau e Claire Denis, 2001), né quelli di “Cannibal Holocaust” (per la regia di Ruggero Deodato, sceneggiatura di Gianfranco Clerici – il film nel lontano 1979 fu censurato): molto più semplicemente sono antropofagi non di serie B e nemmeno di serie C, sono invece di serie Z, quella più splatter assurda e fine a sé stessa. John Smith Jones è un predator in carne e ossa, un terrestre-alieno, lo si potrebbe definire così, che dà la caccia ad altri uomini per macellarli: questo personaggio ci riporta indietro nel mondo di vecchie pellicole di fantascienza orrorifica come V-Visitors, ma anche a un b-movie più recente come “L’insaziabile” (per la regia di Antonia Bird, sceneggiatura di Ted Griffin, 1999). J.S.J alla fine fa un errore, quello che forse gli costerà la testa e qualcos’altro. E come nella migliore tradizione, il poveraccio da predator diventa colui che viene predato: i vecchi amici diventano i nemici, e scappare, lasciando dietro di sé una scia di sangue – come in un film di Quentin Tarantino – è tutto quello che può fare. Solo che né Wu Ming 5 né il suo personaggio hanno una sola unghia del talento di Tarantino, così la scia di sangue risulta essere una performance di infimo livello, confusa e pasticciata. L’umorismo di Riccardo Pedrini è a dir poco inutile, sovraccarico, abnorme: indarno cerca di dare un senso alla storia, provando a emulare la scrittura perfetta e psicotica e nerissima del geniale W.S. Burroughs, la cui potenza immaginativa e mentale in “Naked Lunch” è paragonabile solo all’”Ulisse” di James Joyce.
Ci si sorprende a fine lettura che tra i tanti commedianti di passaggio incontrati da J.S.J. non ci sia stata anche la Madonna o una sua più (com)piacente controfigura: ma è naturale, nel senso che la penna di Riccardo Pedrini è quanto di più sterile possa esistere nel mondo delle lettere, perché impotente nel dar voce al femmineo. Una storia che è antigienica, che porta in sé il seme della confusione, che non ha né rotta né destinazione per un peep show dannatamente cieco più di un qualsiasi Tiresia passato presente futuro, più di un voyeur asessuato il cui impegno sia solo quello di sciorinare la bellezza asettica dell’esser senza connotati corporali né anagrafici.
Sarebbe decisamente il caso che Riccardo Pedrini rivolga la sua attenzione all’“Ars Poetica” di Orazio e al “Satyricon” di Petronio Arbitrio tanto per iniziare a capire che non basta appiccicare una testa a un torso con mani e gambe per poterlo dire uomo o anche solo golem. In ogni caso, John fugge: incontra Wang, l’Eroe Marziale e Harry the Mod, assassino vintage, nonché altri bizzarri proiettili (in)umani che gli si buttano addosso con tutta la loro forza. Non fosse per il fatto che trattasi di un romanzo, “Free Karma Food” parrebbe la bozza per un fumetto molto trash ma che potrebbe forse piacere a qualche amante del genere.
In realtà è un quasi romanzo solista, perché c’è anche lo zampino di Wu Ming 1 (Roberto Bui), almeno per i titoli dati ai singoli capitoli: purtroppo la mano di Roberto Bui non ha potuto operare alcun miracolo sulla scrittura di Pedrini. Rimane nel lettore occasionale, o fanatico che sia, oppressiva la sensazione che il peggio ha ancora da venire e che non si è esaurito con “Free Karma Food” né con “Avenida Revolucion” di Cesare Battisti.
Il terzo lavoro solista di Wu Ming 5 non porta da nessuna parte né il lettore abituale né quello occasionale: ma certo è che c’è voluta una gran bella faccia tosta a pubblicare questo canovaccio che non si lascia digerire neanche ingollando massicce dosi di Maalox. Poco ma sicuro che né l’autore né quei lettori che vorranno addentrarsi nella psichedelia malata di “Free Karma Food” troveranno mai un solo pallido spettro del Nirvana.

“Free Karma Food” non è un libro brutto, è semplicemente illeggibile.
Intanto le offerte funebri sulla tomba di Kurt Cobain continuano, giorno dopo giorno, anniversario dopo anniversario, nonostante siano passati tanti anni da quel tragico giorno che Kurt si diede la morte con un colpo di fucile in bocca. Il 5 aprile 1994 riecheggia ancora nell’aria, non vuole morire a nessun costo: ed è un bene che sia così. Sulla tomba di Kurt Cobain, secondo il rito buddista, soltanto i suoi cd preferiti, alcune corde di ricambio per l’amata chitarra, tanti petali di gardenie e il suo cibo preferito, quello in scatola.


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