Freiheit

Creato il 05 novembre 2013 da Scribacchina

Quel mattino, quando varcò la soglia dello studio nel blocco 26 del campo di Auschwitz, il fotografo Wilhelm Brasse trovò Stanislaw Tralka seduto al banco fotografico con una matita in mano e un foglio di carta davanti. Usava il banco come scrivania: poteva permetterselo, finché non circolavano tedeschi. Stanislaw era uno studente di letteratura e aveva raccontato a Brasse di essere stato arrestato dalla Werhmacht nel novembre del 1939 mentre si trovava in facoltà, all’università di Cracovia. Quel giorno i nazisti avevano messo dentro decine di professori e nel sacco era finito anche un buon numero di studenti: il fior fiore dell’intellighenzia polacca. Stanislaw era arrivato ad Auschwitz dalla prigione di Tarnów, proprio come Wilhelm, ma prima di lui. Era un pioniere del campo: gli avevano dato il numero 660. Adesso non era certo impegnato nella stesura di qualche critica letteraria.

«Senti qua…»
«Cos’è?»
«Una lettera per i miei»

Brasse aggrottò la fronte.
«Come pensi di farla uscire? Ci hai già provato un paio di volte…»
«Lacek l’idraulico è sicuro di aver trovato una guardia disposta a chiudere un occhio…»
Il fotografo scosse le spalle: non era mai d’accordo su quelle faccende. Se i tedeschi avessero trovato la lettera, avrebbero pestato la guardia e ucciso il suo compagno. Una cosa del genere sarebbe stata un pessimo affare per tutto il Kommando del blocco 26. Ma lui non poteva certo impedire che gli uomini sentissero nostalgia di casa. Stanislaw, poi, era anche più giovane di lui e aveva lasciato a Cracovia famiglia e fidanzata.
Brasse sospirò e fece un cenno all’altro perché gli leggesse la lettera.

«Ho appena cominciato e gli sto raccontando che vita facciamo…»
«Sei pazzo?»

Tralka rise.
«Stai tranquillo. Non dico quasi niente. Penserebbero davvero che sono pazzo e non mi crederebbero. Mi limito alle cose normali, così stanno tranquilli e non si preoccupano. Ecco qua: “Ognuno di noi viene da una parte diversa della Polonia, ma allo studio fotografico abbiamo creato ugualmente una piccola famiglia. Passiamo la maggior parte del giorno qui: lavoriamo, mangiamo, chiacchieriamo di ogni cosa e qualche volta cuciniamo, facendo a gara come cuochi…”»
«Quando mai cuciniamo?» chiese sarcastico Brasse.
L’altro alzò le spalle.
«Mai. Ma ci piacerebbe farlo, no?»
«Continua…»

«”Torniamo alle nostre baracche solo per dormire e grazie a Dio ciascuno di noi ha una branda con il suo pagliericcio. La sveglia è alle cinque e mezza, troppo presto, soprattutto per me: come sapete, a casa non mi alzavo mai prima delle sette e dopo una giornata di duro lavoro avrei bisogno di più riposo. Ma non è possibile. Qui bisogna rigare diritto e se non ti presenti all’appello sono guai. Comunque, la notte è la cosa migliore della nostra vita al campo, perché siamo liberi di sognare quel che vogliamo. Nessuno, nemmeno i tedeschi, è ancora capace di controllare i miei sogni e io sogno spesso di incontrarmi di nuovo con voi. E’ un sogno meraviglioso e doloroso, perché mi fa sentire come se fossi a casa, libero…”»

Stanislaw sollevò gli occhi dal foglio e guardò Brasse.
«Per il momento sono arrivato qua. Che ne dici?»
«Sei fortunato. Io non sogno mai di essere libero…»
«Vuoi crepare ad Auschwitz, amico mio?»
Ma il fotografo non poté rispondere.

Luca Crippa e Maurizio Onnis, Il fotografo di Auschwitz


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