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Film da massimi scranni dell'Olimpo, cosa che possiamo dire facilmente oggi. Ai tempi quando uscì suscitò qualche perplessità per non dire scalpore. Cito da wiki: "Il film non raccolse giudizi positivi: nell'immediato dopoguerra Mario Soldati era giudicato "calligrafo", un autore molto sensibile ai problemi formali ma non a quelli dell'impegno politico. Col tempo il giudizio sul film è mutato. Nel 2006 è stata ultimata dalla Cineteca Nazionale la versione restaurata del film, proiettata alla 63ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia (2006)".
Mario Soldati, per me tra i più grandi intellettuali italiani del XX secolo - qua coadiuvato per soggetto e sceneggiatura da altri grandi nomi: Ennio Flaiano, Cesare Pavese - fece qualcosa forse troppo difficile da digerire per i tempi, da ambo le parti degli schieramenti della Guerra Civile che tormentò l'Italia del centro e del nord, dall'8 Settembre 1943 fino agli ultimi giorni di Aprile 1945 (non ovunque terminò il 25).
La Francia, per ragioni diverse, era terra di speranze nel primo dopoguerra, soprattutto per liguri e piemontesi. Poteva essere occasione di contrabbando come luogo di rifugio per evitare processi per crimini di guerra, processi che videro imputati sia partigiani che fascisti. Ispirato quindi a fatti reali, idea che venne al produttore Carlo Ponti, si racconta la vicenda di un gerarca fascista (grandiosamente interpretato da Folco Lulli, attore forse non adeguatamente ricordato negli annali) che fugge da Torino verso appunto la Francia dove ha amici che lo posso ospitare e proteggere, con tappa obbligata ad Oulx, paese di confine che sembra una "casablanca" per chi la frequenta, senza essere però territorio franco. Si unirà casualmente a tre giovani, anch'essi in procinto di entrare in Francia clandestinamente, in cerca di lavoro. Uno di questi giovani è un operaio, forse ex partigiano (lo chiamerò così d'ora in poi, interpretato da un convinto e convincente Pietro Germi), decisamente antifascista, tanto che quando nel rifugio in montagna che useranno per riposarsi scoprirà che quello è un gerarca, ricercato in Italia, deciderà di ucciderlo seduta stante ignorando persino che con la grossa taglia che grava su di lui potrebbe arricchirsi. Non lo farà, ma da quel momento inizierà tra i tre e il gerarca un reciproco inseguirsi, minacciarsi fino in Francia. Non proseguo oltre sulla trama, ricca di eventi significativi che lascio godere.
E' un tema delicato questo delle rivalse post-guerra, sia che esse derivino da vendette, o da processi sommari o, come in questo caso, da crimini conclamati e processi regolari ai quali seguiva la condanna a morte senza dubbio. Nella storia è però presente un bambino (Enrico Olivieri), una "variabile" che tiene costantemente legati ai valori umani "di base" i due più accaniti, il gerarca e il partigiano. Questo bambino è figlio del gerarca che lo prese con sé a Torino dal collegio cattolico dove risiedeva e se è con lui è per le insistenze del bambino. Alla fine se lo porta, ma sembra più per opportunismo, per apparire meno sospetto, che per sentimento paterno. Non indugerà un istante a scappare, quando furbescamente fugge alla volontà esecutiva del partigiano, lasciandolo coi tre giovani. Falso e crudele, l'uomo si barcamena tra pentimenti e sentimenti, ma commetterà anche un omicidio prima di salire in montagna pur di non essere arrestato. Eppure nel lungo finale, causa il bambino... E' una figura che ti fa porre delle domande. Senza processo poteva riconciliarsi? E' credibile? Anche in un contesto di guerra civile le sue "gesta" erano da considerare azioni militari? Ognuno risponda come crede, io dico NO, NO e NO! L'avrei scannato con le mie mani se, come il partigiano protagonista, avessi avuto uno dei miei figli ucciso proprio a causa delle sue rappresaglie. Ancora una volta il bambino lo frenerà, moralmente. Uccidere il padre, davanti al figlio, nonostante tutto, gli riesce impossibile...
Certe volte si vorrebbe da questi film risposte chiare e decise. Si potrebbe scrivere all'infinito in termini di considerazioni su questo film (sugli aiuti del clero cattolico alle fughe di fascisti e nazisti parlerò in altre occasioni) che espone senza mezzi termini uno degli aspetti più difficili del primo dopoguerra. Negli ultimi anni, grazie anche al fatto che parlamento e governo sono stati (e sono) pieni di fascisti più o meno nostalgici, il tema della riconciliazione, mai risolto, è tornato nei termini che i suddetti vorrebbero celebrazioni anche per i morti repubblichini, sostengono che tutti i morti meritano rispetto. Sarà, ma penso che i morti, in quanto carcasse, si possono anche rispettare tutti, però se celebro un Nome lo celebro per quello che ha fatto in vita e per quali valori è morto. Questa gente che s'è messa al servizio di mussolini, il quale a sua volta è stato fantoccio di hitler, merita di essere ricordata solo per il danno enorme che hanno portato a questo paese, non solo dopo ma anche prima dell'armistizio.
Com'è facile la vendetta che è sete di giustizia in questi casi, com'è difficile attuarla se qualcosa ti ancora all'umanità non empia ma empatica. Questo andirivieni emotivo è scandito da immagini e montaggio che insieme alle musiche splendide di Nino Rota trasportano lo spettatore in un tumulto di passioni contrastanti. Gli stupendi paesaggi non perdono nel bianco e nero che esalta il candore della neve, quelle montagne sono belle come la speranza; ombre nel momento da noir che contraddistingue l'appostamento del gerarca ormai deciso a liberarsi di un testimone che può sconfessarlo; grigia la tormenta che avvolge il rifugio quando il partigiano vuole uscire per l'esecuzione; frenetico il momento, sempre nel rifugio mentre si ride e si scherza prima sinceramente e poi forzatamente, quando il gerarca viene riconosciuto per quel che è e soprattutto per quel che ha fatto.
Film da Olimpo come detto, visione tassativa. Ancora un encomio ai due principali attori: Folco Lulli e Pietro Germi. Grazie a loro, e all'accurata analisi psicologica che ne viene fatta, possiamo dire che questo film è qualcosa che supera abbondantemente il "semplice" neorealismo.
Concludo uscendo in parte dal tema, allo scopo di ringraziare dal cuore Mario Soldati, fra le tante, per l'immagine che vedete qui sotto.
In quella specie di rifugio, come hanno a notare i protagonisti, sono passati proprio tutti e ci sono scritte di ogni genere. Il gerarca legge con apparente distrazione alla sua destra. Sotto il fascio littorio con sigla del P.N.F. c'è una scritta "duce sei tutti noi" malamente cancellata per essere poi rintuzzata da un "W Duccio!". Dal duce a Duccio, da una vergogna ad un Orgoglio della nostra nazione.
"Tancredi Achille Giuseppe Olimpio Galimberti, detto Duccio (Cuneo, 30 aprile 1906 – Centallo, 4 dicembre 1944), è stato un avvocato, antifascista e partigiano italiano. Medaglia d'Oro al Valor Militare e Medaglia d’oro della Resistenza, fu proclamato Eroe nazionale dal CLN piemontese".
Vi lascio a wiki per l'approfondimento. Io l'ho conosciuto grazie al libro "Partigiani della montagna" del compianto Giorgio Bocca (è morto lo scorso 25 Dicembre 2011) il quale, anch'egli cuneese, partecipò alle lotte partigiane di quell'area che ebbero il primo abbrivio proprio grazie all'iniziativa di Duccio Galimberti che convocò nel suo studio, in piazza Vittorio a Cuneo, tutti coloro che intesero aderire partendo da quelli del movimento clandestino di "Giustizia e Libertà".
La Medaglia d'Oro ce l'appuntiamo noi in sua memoria per ringraziarlo. Duccio non ebbe modo di appuntarsela:
"In seguito ad una delazione, venne arrestato il 28 novembre 1944, in una panetteria di Torino che era il recapito del Comando partigiano. I frenetici tentativi delle forze della Resistenza di operare uno scambio di prigionieri con i tedeschi furono inutili: Galimberti era una figura importantissima per i partigiani resistenti e, per i nazisti e i fascisti, una preda troppo ambita per lasciarla sfuggire.
Quattro giorni più tardi, nel pomeriggio del 2 dicembre, un gruppo di fascisti dell’Ufficio politico di Cuneo andò a Torino per prelevarlo dal carcere. Fu trasportato nella caserma delle brigate nere di Cuneo: qui Galimberti venne sottoposto a interrogatorio e ridotto in fin di vita dalle sevizie, ma nonostante questo i fascisti non riuscirono ad ottenere alcuna informazione riguardante le formazioni partigiane della montagna cuneese.
Il mattino del 4 dicembre, fu caricato su un camioncino e trasportato nei pressi di Centallo dove venne ucciso con una raffica di mitra alla schiena."
Robydick
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