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Fuori nevicano rose gialle

Da Dedalus642 @ivanomugnaini

Copia di copertina3jFederica Galetto e Simonetta Sambiase hanno saputo convergere, partendo dalle loro esperienze letterarie precedenti, sul terreno condiviso di una narrativa basata su temi forti, sanguigni, senza mai scordare però il gusto di una narrazione elegante, curata, mai sciatta o approssimativa. Il frutto di questo incontro di energie espressive è l’e-book dal titolo suggestivo “Fuori nevicano rose gialle”, in vendita da alcuni giorni in tutte le librerie on-line. Le due autrici hanno scritto una nota in cui ciascuna mette a nudo gli spunti, gli intenti, i nodi, gli sviluppi, le tracce e i segni che hanno disseminato per il lettore, per quel progetto di cooperazione intrinseco all’atto dello scrivere. Pubblico sia le note che due brani dei racconti, uno per ciascuna scrittrice, scelti da loro stesse. Un saggio breve ma significativo di un libro interessante, non banale, in grado di indagare sul mistero dell’esistere, sul discrimine sfumato tra realtà e immaginazione, tra la vita e quella terra di nessuno che ne costituisce la zona d’ombra, di attesa, di assurdo mistero. IM
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Lasciare che nelle storie e nei personaggi possa muoversi la vita come nella realtà, è una necessità verso la quale tendo.
Da dove possano arrivare le storie si fa fatica a ricordare o esemplificare perché tentare una cronistoria degli impulsi creativi e della realizzazione dei propri racconti non è del tutto possibile: porterebbe con se la formula esatta della propria ispirazione, che invece è ben lontana da principi e formule costanti. Accade che devi raccontare e quando io racconto cerco di mediare fra due forze che hanno quasi la stessa personalità e non è un’apparenza di schizofrenia. E’ invece un incontro continuo fra la volontà propria dell’io narratore di dirigere e condurre saldamente una storia e l’imprevista forza autonoma che pretendono alcuni dei personaggi a cui sto dando la vita seppur virtuale della pagina.
Così è accaduto anche nei racconti di questo libro. Non certo uno stato di grazia, ma piuttosto una mediazione inspiegabile con la logica del pensare e decidere, fra la necessità del narratore di creare e regnare sulle storie, “le sue storie” che si formano davanti agli occhi e nel foglio e le impreviste rivolte e sommosse dei personaggi a cui si sta dando la vita in pagina. Che sembrano prendere corpo nel tuo e ne senti perfino la voce; ti concedono di entrare nei loro pensieri perché vogliono che tu non commetta sbagli nel raccontarli. Ma chi siano e da dove arrivino è impossibile da spiegare.
Così strade dei racconti possono girare, accorciarsi o sperdersi in misure e protagonisti diversi, e raggiungere l’uscita (la fine) anche diversamente dalla via maestra che eri sicura di voler e dover percorrere. E’ più agevole l’analisi del materiale narrativo, la forma e il corpo della scrittura, nonostante essa sia l’essenza stessa del romanzo: non è un paradosso in termini. La scrittura è un atto critico e analizzabile, la distintività primaria del narratore ma le regole che portano dall’ispirazione alla realizzazione sono ipogee e intraducibili.
Nessuna delle storie contenute nel libro si assomiglia né per trama né per ambientazione, nessun filo conduce fuori dal labirinto, la strada maestra quindi non esiste, perché non è un romanzo dove tutto deve combaciare. Come nella vita, nulla combacia ed anche il lettore viene portato verso strade diverse da quelle che volevi fargli percorre, ma questo forse non è dato da sapere all’autore. Si può forse tracciare un’unica tendenza comune fra i sei racconti, che è quella di aver istintivamente scelto una protagonista femminile in ognuno, ma intorno ad essa nulla è uguale all’altro e agli altri, nulla si sovrappone. Non c’è un unico luogo, non c’è un unico tempo, ci sono paesaggi bretoni e pianura padana, inverni medievali ed estati in capannoni industriali, ricordi e futuri possibili, adolescenti e amanti abbandonate, solitudini e amori di lungo corso ed altro ancora. Lo stato della grazia è nel titolo: quell’eccezionalità che si cerca almeno una volta nella propria vita, per cui potrebbe accadere l’imprevisto, un fenomeno innaturale fuori dalla propria quotidianità, come potrebbe essere la percezione di una nevicata differente dalle altre, un’innaturale neve fatta di rose gialle.

Brano tratto dal racconto LE CHIAVI
“GIORNO DI RICORDI”
Glielo aveva insegnato Igor a distinguere le gazze dai corvi o dai piccoli merli. Igor aveva una passione per tutto il mondo che volasse, dagli uccelli agli elicotteri, perché lui era Aria e nessuno poteva segregare l’aria. Igor aveva amore e fiducia nelle sue ali invisibili, che lo liberavano dalla terra e lo alzavano al cielo. Come quando si lanciava da piccoli aerei nei campi attrezzati e si obbligava ad aprire il paracadute solo all’ultimo momento, per essere ancora aria, una moltitudine libera di anima e di ossigeno.
Per lei, invece, bastava la sua presenza ad aprire la dimora del cielo. Non aveva ali da dilatare per volare, lui era il suo solvente terrestre e lei si diluiva nel suo spazio celeste, l’esosfera del suo respiro, la partenza e l’arrivo di ogni mondo dove Igor sovrastava terre e luoghi. Non c’erano mura chiuse o vie curve con lui, le prospettive si azzeravano, e si rivelavano visibili gli orizzonti multicolori, fra i quartieri squadrati dai caseggiati popolari o le ville nascoste fra i vigneti. In inverno nevicavano rose gialle, in estate arrivavano grilli luminosi sulle sue piante pensili. Miracoli. Lui era un miracolo. O un miraggio incarnato.
Per maggiore verità, lei vedeva quell’uomo attraverso una “cortina d’acqua”: innamorarsi e sciogliersi e risorgere in un amore, questa era la sua anima innamorata e Igor fu l’amore incarnato dal primo istante, la sua prima visione della Terra, come ne parlava Anais Nin, il suo amore “velato dall’acqua”. Felicità e incertezza insieme, una nuova adolescenza ma piena di sensi in festa e di adorazioni mai sottomesse che lei sublimava nei suoi diari nascosti, moleskine rosse che segnavano giorni multicolori, perfino, a volte, sopra lo spettro del vecchio sentirsi viva.
La scelta d’ amare Igor era oltre l’uomo Igor, adorato, piuttosto che conosciuto, percepito con illogiche ragioni nascoste, Igor così puro nei suoi vestiti perennemente contratti nel nero, Igor così forte, con le spalle inquinate dai muscoli e dalle magliette di cotone anche in pieno inverno, Igor dagli occhi di un castano velenoso, liquidi, squadranti ogni forma umana che gli si parava davanti. Pioveva sempre quando Igor e i suoi amici arrivavano in città. Tanti diluvi fa. Troppe maree di sorrisi in pianure senza altre onde.

Simonetta Sambiase

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La scrittura di un racconto è un percorso breve ma intenso. L’ispirazione arriva per gradi, scatenata da dettagli concatenati fra loro e presenti nella realtà quotidiana; una frase, un volto, una chiacchierata con un amico o semplicemente un guizzo mentale improvviso che riporta ad un luogo ben preciso, un ricordo. La maggior parte dei miei racconti si fonda principalmente sul ricordo, lontano o vicino nel tempo, che mi guida verso altri ricordi ancora e così via, creando così l’empatia con i miei personaggi. Il vissuto non rappresenta necessariamente l’esperienza personale; se parlo di violenza non significa che io stessa l’abbia subita, per intenderci, ma ogni volta che creo un personaggio la sua voce, la sua realtà, diventano le mie. Ho ascoltato qualche giorno fa un’intervista rilasciata dal poeta recentemente scomparso Seamus Heaney, che spiega molto bene il concetto di ricordo come base della poesia e della scrittura. Capita che il mondo venga incontro allo scrittore solitamente sotto forma di ricordo, le cose abitano nella possibilità e nella memoria per tutto il tempo e il trucco sta nello scovarle, innalzarle dal fondo del flusso, e richiamarle al desiderio, alla lingua. Da qui, la partenza verso mondi possibili (“I dwell in possibility” diceva E. Dickinson), la costruzione minuziosa di esistenze, luoghi, fatti che costituiranno le fondamenta di tutte queste infinite possibilità. La narrativa richiede per me uno sforzo maggiore rispetto alla Poesia. Là dove in Poesia la voce della mia Musa si accanisce, lasciandomi poco spazio decisionale, in Prosa ogni dettaglio viene sezionato, scelto, preordinato dal mio stesso discernere cosciente. Questo per dire che in ogni passaggio della mia Prosa esiste un fondo di robusta consapevolezza che si rafforza man mano con ricerche, riflessioni, tentativi faticosi di ricreare uno spazio, un tempo, una dimensione umana che abbiano forme stabili e credibili. Ho propensione per le situazioni che racchiudono una buona dose di mistero che mi piace creare e svelare poco a poco, mostrando i vari strati del reale, che si rivela non essere mai ciò che noi crediamo sia. Mi piace scavare nella psiche, esaltare le emozioni più sottili che accadono in ognuno di noi per poi restituirle al lettore come specchio e analisi di sé. Nelle mie trame l’azione non è fondamentale; lo sono invece il pensiero e il silenzio, il dialogo interiore. Sono attratta in modo irrimediabile dalle letterature nordiche antiche e moderne e dai grandi romanzieri di scuola classica europea, mi muovo bene in contesti lontani dall’attuale e ho predisposizione alle ricostruzioni storiche e ambientali di secoli passati. Scrivo dal luogo che mi è più caro, la mia casa, fatta non solo di cose materiali conosciute e amate ma anche e soprattutto di luoghi dell’anima che sono radicati in me da sempre. Ci si può sentire a casa anche in una terra sconosciuta, sul greto di un fiume o in una caotica città che non abbiamo mai visto, si può essere quello che si sente di essere senza mai esserlo stati davvero. Il mio raccontare implica tutto questo. In questa raccolta di racconti, per quanto non vi siano legami spazio temporali fra una narrazione e l’altra, il filo conduttore si può identificare con la condizione femminile, con la tracciatura di una mappa emotiva che raccoglie il respiro delle donne. Dal Medioevo ai giorni nostri, dai paesaggi padani ai fiordi e mari del nord, può accadere l’inaspettato, l’imprevisto. Anche quando sembra, apparentemente, che nulla accada.

Brano tratto dal racconto “IL PATTINATORE DEL SUND”
Aveva il cielo della tundra negli occhi, i suoi capelli erano biondi e luminosi come l’abbagliante luce del nord, lunghi e avvolgenti come una morbida coperta. Lei, incapace di rispondere ai richiami di fuga che scaturivano da dentro, ignara di ciò che sarebbe stato e del futuro più vicino, fustigava se stessa, sgretolando a poco a poco la sua forza. Fuori, in un punto lontano oltre la neve, il mare luccicava coperto da vasti tratti di superficie ghiacciata che come un coperchio lo conteneva nel suo immoto
fluire. Il villaggio più vicino era a circa venti minuti a piedi dalla sua casa e Julia, oppressa dal tedio di quel giorno decise di uscire, avventurandosi nella neve e nel vento furibondo per andare a comperare caffè, sigarette, carne e patate per il Kumla. L’estate era ancora lontana. La stagione della pesca era appena iniziata e Peter era partito per la grande battuta di pesca al merluzzo. Forse sarebbe stato fuori per giorni o sarebbe rientrato a breve, forse quella sera stessa, costretto dalle intemperanze del mare.
In poco tempo allora, con il rientro dei pescherecci, il panorama sarebbe stato costellato da migliaia di stoccafissi appesi ad asciugare e l’aria sommersa dal pungente odore del pesce esposto; i gabbiani, come impazziti, sarebbero giunti a frotte sull’isola moltiplicando i suoni del loro grido. E le giornate avrebbero avuto la cadenza del coltello nelle viscere dei pesci e lo stupore muto delle loro enormi bocche spalancate. Con questo pensiero si avvolse a malincuore in un pesante pastrano, infilò sopra la giacca di pelliccia, si calcò sul capo un caldo cappello di lana, calzò gli stivali, i guanti, ed uscì.
Le strade erano deserte, e non se ne vedeva traccia sotto la neve che uniformava il paesaggio senza lasciare segni visibili. Conosceva la direzione da prendere ormai e sapeva che se avesse proseguito costeggiando il Sund verso nord avrebbe raggiunto l’imbocco che portava al villaggio. All’alba di quel nuovo giorno, la strada che conduceva allo sparuto villaggio tra le nevi era impervia e cupa. Anche gli uccelli parevano distratti dalle loro rotte quotidiane e l’incedere di Julia era interrotto unicamente dallo scricchiolio dei suoi passi sulla neve, compressa nelle sue impronte. Solo uno stormo di oche selvatiche passò, lasciando nel cielo un’ombra cuneiforme; poi giunsero i gabbiani in stormi compatti oscurando l’aria colma delle loro voci.

Federica Galetto



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