Magazine Cucina
Però mi sento incredibilmente creativa ed ho deciso di celebrare uno di questi (rari!) momenti con un post. In realtà, l'ispirazione me l'ha data stamattina una collega, V., che ringrazio, quando parlando della serata di salsa di domenica (cui non sono andata per eccesso di stanchezza, ma pare che io non mi sia persa granché) ha richiamato alla mia mente un universo di ricordi, di pensieri, di emozioni, che col ballo caraibico non c'entrano assolutamente nulla.
Le comuni origini pugliesi e il periodo estivo hanno fatto sì che la parola "salsa" evocasse alla nostra mente tutt'altro: ossia il rito della salsa, con i suoi ritmi e il suo folcklore assolutamente unici.
Per noi pugliesi la salsa è esclusivamente la salsa di pomodoro, quasi che non possa esistere altra salsa possibile (e non lo dite, per favore, qui in Belgio!). E "fare la salsa" si riferisce non a quel momento possibile ovunque in cui una mamma volenterosa decide di non comprare la passata pronta, ma di ottenerla dalla materia prima, il pomodoro; bensì a un rito indimenticabile di tutte le estati della mia infanzia, quando tra luglio e agosto tutte le famiglie del paese cominciavano ad organizzare la giornata (o le giornate!) della salsa.
Se ne cominciava a parlare giorni e giorni prima. Sì, perché di pomodori ce ne sono di varie qualità ed ognuno ha le sue teorie su quale sia il pomodoro migliore per "fare la salsa". E anche di piccoli produttori ce ne sono tanti in zona, e ovviamente bisogna scegliere allo stesso tempo il migliore e il più economico. Si andava nei paesi vicini a comprare da 1 a 2 quintali di pomodori.
Poi si era pronti per il grande evento. Per alcune famiglie il momento della salsa era un momento collettivo; l'allestimento veniva fatto nei cortili interni ed esterni e poteva prevedere anche la partecipazione di persone non appartenenti alla famiglia (nel qual caso le quantità di salsa prodotte a vantaggio di tutti i partecipanti erano a dir poco impressionanti!). In generale, però, fare la salsa era un'attività intorno alla quale la famiglia si riuniva e ognuno aveva il suo ruolo. Di solito era la mamma a dirigere i lavori (padrona della cucina e della casa nella nostra tradizione), il papà invece era costretto ai lavori di fatica: trasportare i fornelloni e i bidoni per la cottura, montare la macchinetta per macinare i pomodori e poi - in caso di macchinetta manuale e non elettrica (quella è venuta dopo!) - macinare appunto i pomodori, a volte aiutato dal figlio maschio in età almeno adolescenziale.
La figlia femmina più grande si occupava di lavare i contenitori della salsa (quelli che per noi sono i "boccacci"), di chiudere le bottiglie, di trasportarle nella dispensa man mano che erano pronte.
A me, la piccola di casa, toccava al massimo svuotare il secchio dove i residui del pomodoro macinato si accumulavano nel corso della giornata. A volte aiutavo la mamma a lavare i pomodori... Attività semplici e in cui non potevo fare danni. Avrei voluto sostituire il papà nell'uso della macchinetta e ogni tanto mi veniva consentito, salvo che dopo pochi minuti il mio braccino non ce la faceva più e cominciavo a far traboccare le bottiglie con conseguente arrabbiatura di tutti.
Qualche volta (quando ancora usavamo le bottiglie con i tappi a corona, e non le bottiglie con il collo largo del succo di frutta - grande rivoluzione nel rito della salsa) mi facevano chiudere le bottiglie con l'apposito attrezzo, ma anche lì ero abbastanza un disastro.
Prevalentemente scorazzavo in qua e in là, come se si trattasse di una festa, osservando le diatribe familiari causate non tanto dalla complessità dell'organizzazione del lavoro, ma dal fatto che la famiglia non era abituata a stare tutta insieme intorno a un tavolo per ottenere un risultato collettivo. Ogni tanto mi incantavo a guardare il meccanismo di quella misteriosa macchinetta, che non ho mai capito come faceva a separare la polpa del pomodoro da buccia e semi. Poi, senza farmi vedere (perché era assolutamente proibito), passavo vicino ai grandi bidoni pieni d'acqua e poggiati su enormi fornelli in cui la salsa nei barattoli era messa a cuocere e ad andare sottovuoto.
E tutto questo grandioso spettacolo durava almeno una giornata intera. Il giorno della salsa ci si alzava presto (io a dire la verità non mi alzavo mai prima delle nove, e trovavo già tutti indaffarati che mi dicevano di togliermi di mezzo) e si andava avanti tutto il giorno con queste operazioni ripetitive ma di grande soddisfazione. La sera poi restavano i grandi bidoni con tutti i "boccacci" dentro e ancora la fiamma accesa.
I giorni successivi si assaggiava la salsa nuova. E lì subito la mamma a dire che la scelta dei pomodori era stata ottima e che il metodo che avevano utilizzato (far bollire i "boccacci" con la passata e non i pomodori prima) era certamente il migliore - mica come altri che producevano quella salsa stracotta! - e che menomale che avevamo fatto la salsa nuova, visto che ultimamente era costretta a comprare i pomodori tutti i giorni, perché a lei la salsa vecchia di un anno non piace (nel tempo le idee cambiano, anche quelle delle mamme, che continuano a fare la salsa, ma solo una cinquantina di chili, ché, dopo, quando arriva la stagione dei pomodori è meglio farla fresca tutti i giorni la salsa!).
Certo, molte cose sono cambiate da allora. Sempre meno persone fanno la salsa (i miei ancora sì, ma la fanno in solitudine e più che macinare preferiscono "dare il bollo" ai pomodori interi nei "boccacci"); soprattutto sempre meno si tratta di un rito, e non scandisce più l'estate con il suo frenetico ritmo e con i suoi irresistibili profumi.
Del resto, non abitiamo più nella casa col grande terrazzo (dove ha vissuto per un po' anche il nostro cane trovatello e anche lui partecipe di tante sessioni di salsa), e anche se ci vivessimo la strada di casa non è più un vicolo cieco, e il nostro edificio non guarda più a una vigna (teatro di tante avventure dell'infanzia!). Tutto è cambiato. In meglio, in peggio, non so... Come dice Sabina Guzzanti in uno dei suoi recenti post in riferimento agli indiani, chissà "Se sanno che il tempo darà ragione a loro".
Insomma, un flusso infinito di ricordi. La mia Puglia. Quella terra che ho imparato ad amare profondamente e sinceramente solo dopo averla lasciata e averla a lungo, in parte, odiata. Forse è così che accade con le proprie origini.
Forse è per questo che mi affascina sentire parlare Vendola. Profeta postmoderno di una terra antica. Lo so, non esageriamo. Ma mi riferisco all'eloquio. Il resto non so.
Alla prossima puntata. Puglia arrivo.
Firmato
Una pugliese postmoderna.
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