Cinque pellicole dall’estremo oriente, cinque perle di un, per molti, misconosciuto mondo di cinema cosparso di pregiudizi quanto ricco di sorprese. Cinque storie di evasioni, gabbie infrante, spezzate o distrutte in mille pezzi, oppure inevitabilmente opprimenti.
Da vedere da soli (o in compagnia di una persona predisposta), di notte, senza pregiudizi, non sto manco a dirlo, in lingua originale.
The Hole: le gabbie della solitudine
Regia: Tsai Ming Liang, Taiwan, 1998
Al termine del millennio in una Taipei perennemente piovosa e preda della noncuranza, imperversa un’epidemia che infetta la popolazione, una sconosciuta malattia che porta le persone a temere la luce e a rifugiarsi negli angoli oscuri. Una manifestazione clinica di un fenomeno morale strisciante che pervade gli animi delle persone e le spinge ad isolarsi le une dalle altre, l’individualismo, che porta alla solitudine.
The Hole di Tsai Ming Liang
Nella vita grigia e sola di una coppia di anonimi cittadini che ignorano l’ordine di evacuazione il virus è presente nelle sue due forme, quella morale e poi quella clinica.
C’è una donna che fantastica di avere un’altra vita colorata ed emozionante. C’è un uomo che passa la giornata in un triste negozietto di alimentari con solo amico un gattino. I due abitano in uno squallido palazzone l’uno sopra l’appartamento altra ma non si conoscono, si incontrano ma non comunicano.
Ma un giorno un personaggio esterno, un maldestro idraulico, li metterà in “comunicazione”, regalerà inconsapevolmente loro un canale attraverso il quale provare rompere le proprie invisibili e pesanti gabbie a trovare la salvezza, insieme.
Tsai Ming Liang ci regala un film molto più “digeribile” dei precedenti (“Vive l’amour”, “Il fiume”), iperrealista, superficialmente cupo, intimamente sorprendente, in fin dei conti positivo, in un’atmosfera che un mio caro amico definisce “lui mangia da solo, piange e fuori piove”.
Tokyo Fist di Shinya Tsukamoto
Tokio Fist: le gabbie della rabbia
Regia: Shinya Tsukamoto, Giappone, 1995
Due compagni di scuola in passato assistettero ad un’inaccettabile ingiustizia e fecero un patto di vendetta. Poi però hanno preso strade diverse.
Tsuda è un grigio assicuratore porta a porta. Kojima è un modesto pugile professionista.
Sullo sfondo di una Tokyo alienata, distante, arida e chilometrica, Tsuda e sua moglie Hizguru vivono una vita piatta, anche dal punto di vista sessuale, che verrà totalmente sconvolta dall’incontro fortuito dei due ex-compagni. Hizguru comincia ad essere attratta dalla grintosa e sfacciata fierezza di Kojima, pian piano comincia a farsi largo in lei una ignota e dirompente forza che si manifesta in piercing, tatuaggi e crescenti mortificazioni.
Tsuda è suo malgrado pian piano coinvolto e poi travolto da un fiume di violenza che porterà lui, Kojima e Hizguru a scoprire i lati più sanguinosi della (auto)violenza, a far esplodere fisicamente la propria rabbia principalmente contro sé stessi, fino a portare lo scontro alle estreme conseguenze.
Shinya Tsukamoto partecipa attivamente incarnando il ruolo del protagonista nel guidare in una incessante e smisurata corsa lo spettatore verso la sanguinolenta rottura della sua personale ed arrugginita gabbia di mitezza, in un viaggio allucinato ma solido, ipersanguinolento e carnale, esagerato e definitivo, un pugno in faccia liberatore.
Sympathy for Lady Vengeance di Park Chan-wook
Sympathy for Lady Vengeance (Lady Vendetta): le gabbie dell’apparenza
Regia: Park Chan-wook, Corea del Sud, 2005
Lee Geum-ja è una ragazza purissima, bellissima, buonissima, quasi misticamente angelica. Però è in prigione da tredici anni, accusata dell’orrendo crimine di infanticidio.
In carcere aiuta le compagne di cella più deboli, frequenta entusiasticamente la chiesa e diviene la pupilla del reverendo, conquistando così anche la libertà. Ma una volta uscita di prigione Geum-ja comincia ad organizzarsi, trova un lavoro di copertura, cerca vecchie compagne, inizia a preparare la sua vendetta.
Lo spettatore pian piano vede sgretolarsi la candida gabbia delle apparenze e comincia a scoprire il passato inconfessabile ed inconfessato, lentamente si dipana la sconvolgente e cruda verità, inevitabilmente inorridisce per tanta ingiustizia ed orrore, tanto da non poter non essere solidale con la protagonista fino al memorabile finale.
Ultimo capitolo della “trilogia della vendetta” seguito ideale e complementare del precedente “Oldboy”, con cui condivide anche Choi min-sik, l’attore-feticcio di Park Chan-wook, questo magnifico film, arioso, estetico, barocco, raffinato ed asciutto porta ai massimi livelli la visione cinematografica, l’intima catarsi nel tempo, la fine cattiveria psicologica e, mi tocca dirlo, la superiorità del cinema orientale ad opera di uno dei suoi recenti massimi talenti.
I’m a cyborg but that’s ok di Park Chan-wook
I’m a cyborg but that’s OK: le gabbie della tristezza
Regia: Park Chan-wook, Corea del Sud, 2006
Young-goon ha visto portarsi via sua nonna che con lei era tanto buona solo per qualche stramberia, ed ora anche lei è stata portata in una casa di cura per malattie mentali per aver scoperto la sua vera essenza: è un cyborg.
Come tale si rapporta quotidianamente con elettrodomestici ed apparecchi elettrici, grazie al ponte creato dall’indossare la dentiera della nonna, ai quali racconta le sue giornate e da cui riceve consigli e regole di vita; e come tale per non rompersi non può che nutrirsi come un cyborg.
L’ospedale è una grande casa piena di persone incomprese, fragili, fantasiose, troppo estese per quanto è stretto il mondo, ognuna coi suoi modi, i suoi piaceri, le sue caratteristiche, il suo passato, il proprio umido nucleo di tristezza, ognuno con la sua maniera di evadere, vegliate in modo amorevole e complice da un team di giovani dottori.
Tra di essi Park Il-sun, un ragazzo che ruba per non sparire, intravederà la tristezza di Young-goon e incuriosito incontrerà ed amerà la sua essenza senza giudicarla, rimanendo spontaneo e complice, aiutandola a venire a patti con la sua natura, ad accettare il passato e sciogliere la sua gabbia di lacrime.
Park Chan-wook in questo sorprendente, fantastico, luminoso, delizioso capolavoro, distante dai suoi cinici thriller ma non privo della sua caratteristica vena nera, invita alla curiosità ed alla conoscenza ed all’apprezzamento dell’altro con tutte le sue stramberie, ad essere leggeri, a sollevarci in aria e girovagare per questo vasto mondo, a scoprire chi siamo e compiere il nostro esplosivo destino. Ed a domandarci chi siano i veri pazzi…
Raise the Red Lantern di Zhāg Yìmóu
Raise the Red Lantern (Lanterne rosse): le gabbie delle donne
Regia: Zhāg Yìmóu, Cina – Hong Kong – Taiwan, 1991
Agli inizi del novecento, la giovane Songlian si trova a non avere altra scelta che lasciare l’università e divenire la concubina di un ricco e maturo discendente di un antica casata, che nella sua grande casa mantiene altre tre mogli.
Ben presto si rende conto di quanto sia difficile ed intricata la vita lì dentro, tra tradizioni immutabili, gelosie e l’unico obbiettivo fisso di rendere felice il “padrone”
Pian piano scopre falsità, ipocrisie, antiche rivalità, inevitabilmente, col passare delle stagioni, viene avvinta e diventa dipendente dalle soffocanti tradizioni, preda di gelosie ed artefice di azioni riprovevoli e finisce per rimanerne ingabbiata.
Un Zhāg Yìmóu vecchia maniera, ovvero prima dei film impegnati e prima ancora dei “wuxia”zeppi di effetti speciali degli ultimi anni, in compagnia dell’attrice musa di sempre e poi compagna di vita Gong Li, con una fotografia geometrica e sontuosa ma allo stesso tempo non invadente e musiche perfette ed estasianti da ascoltare dai titoli di testa a quelli di coda, ci racconta una storia senza finale e senza fine, una parabola sulla condizione della donna priva della libertà e dell’autodeterminazione, schiava di un padrone che non sa fare altro che metterla in una gabbia in cui è facile perdere il senno.