Allora, come oggi del resto, uno dei piaceri della vita era comprare libri (di lì a poco, avrei scoperto una di quelle "librerie di movimento", a metà strada tra centro sociale e libreria vera e propria, quella di Giovanni Rosasco, in via Torino, non lontano dalla prima).
Ora non ci sono più: né la libreria di cui non ricordo il nome -e Cent'anni è stato forse l'unico libro che vi ho acquistato- né Rosasco (e Dio solo sa quanto mi manchi, non tanto lui, che da bordighista era divenuto berlusconiano... ma l'atmosfera che si respirava nella sua libreria). Non c'è neanche più Gabriel Garcia Marquez.
Borges ha scritto: "Menino vanto altri delle pagine scritte, io mi vanto di quelle lette" (Elogio dell'Ombra). D'accordo, Marquez non era certo Dostoevskij, però Cent'anni di solitudine l'ho letto sette volte, scoprendo ogni volta qualcosa che mi era sfuggito, qualcosa che mi emoziona, qualcosa...
Gli altri libri -non li ho letti tutti- non mi sono piaciuti. Ma Cent'anni ha qualcosa che ti resta dentro. Grazie a questo libro ho iniziato a bere il caffè amaro (abitudine che ho coltivato per anni, poi sono rinsavito....) ma soprattutto, è grazie anche a questo libro che ho cominciato a vedere le cose in un altro modo. Vorrei ricordare Marquez con l'incipit del suo Romanzo e ringraziarlo per averlo scritto...
«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito».