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Gabriel garcía márquez: la solitudine del potere

Creato il 06 marzo 2014 da Postpopuli @PostPopuli

 

di Marco Grassano

“Gabriel García Márquez: la solitudine del potere”

Come tutti quelli della mia generazione, negli anni Settanta ho letto molto gli autori sudamericani. Ricordo, ad esempio, Manuel Scorza e la saga dei suoi indios sfruttati che alla fine trovano un riscatto grazie alla sensualità della bella Maca Albornoz, ricordo il vivace mondo bahiano di Jorge Amado, le Ande “quechua” di José María Arguedas.

 

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Gabriel García Márquez nel 2009 (da Wikipedia)

Gabriel García Márquez (nato il 6 marzo 1927) lo lessi per la prima volta, credo, nel 1979, un po’ dopo gli altri. Il romanzo era L’autunno del patriarca, un libro sulla solitudine del potere che mi parve strano fin dalla prima frase (“Durante il fine settimana gli avvoltoi s’introdussero attraverso i balconi della casa presidenziale, fiaccarono a beccate le maglie di filo di ferro delle finestre e smossero con le ali il tempo stagnato nell’interno, e all’alba del lunedì la città si svegliò dal suo letargo di secoli con una tiepida e tenera brezza di morto grande e di putrefatta grandezza”) (trad. Enrico Cicogna, da L’autunno del patriarca, ed. Feltrinelli).

Seguì a ruota, lo stesso anno, Cent’anni di solitudine, con i continui scatti temporali in avanti e all’indietro, a partire dall’inizio (“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel pomeriggio remoto in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio”), e col finale che mi lascia l’amaro in bocca ancora oggi: “perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra” (trad. Marco Grassano).

Solo nel 1982, a Salamanca, lo affrontai, con qualche fatica, in lingua originale, nella Crónica de una muerte anunciada. Anche qui il racconto era accattivante fin dall’avvio: “Il giorno in cui lo avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle cinque e mezzo del mattino per aspettare la nave sulla quale doveva arrivare il vescovo” (trad. Marco Grassano). Il resto delle letture le feci poi direttamente in spagnolo, ormai con molta più scioltezza: La mala hora, La increíble y triste historia de la cándida Eréndira y de su abuela desalmada, El amor en los tiempos del cólera, El coronel no tiene quien le escriba, una raccolta dei suoi articoli di giornale, El general en su laberinto

Erano letture che in qualche modo avevano segnato il mio immaginario. Quando, alla fine degli anni Ottanta, passai le vacanze in un paesino sui monti dell’Andalusia, con le case bianche che riverberavano un sole schiacciante nei pomeriggi letargici e solitari, mi divertii a recitare il ruolo del protagonista della “mala ora”, andando a farmi radere dal barbiere del villaggio e passeggiando per i vicoli deserti.

Più tardi, le mie amicizie letterarie sono diventate altre, e ho abbandonato il “Gabo”, preferendogli il suo amico Álvaro Mutis e la “disperanza” dei personaggi che ne animano le pagine, o i cantori dell’esilio come Vladimir Nabokov. In anni più recenti (ma non troppo) ho frequentato molto Marguerite Yourcenar e il suo stile impeccabile. Attualmente mi accompagnano i narratori che si cimentano con le descrizioni della Natura, dall’Alejo Carpentier di I passi perduti a un insospettabile Ernst Jünger (provate a leggere Cacce sottili o Foglie e pietre… Che meraviglia!).

Gabriel García Márquez solitudine 2 107x170 GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ: LA SOLITUDINE DEL POTERE
La scrittura un po’ deformante del “realismo magico” mi ha sempre provocato un leggero disagio, se devo essere sincero, ma le tematiche trattate dal nostro colombiano le percepisco ancora assai vicine, soprattutto quella della solitudine: forse una delle principali sensazioni da cui è accompagnata la vita dell’uomo. Tutti i protagonisti dei suoi romanzi sono fondamentalmente soli, pure quando vivono in mezzo a una folla di altri personaggi. Incontriamo man mano, magari nello stesso libro, la solitudine dell’amore non ricambiato, la solitudine di chi ha perduto le persone più care e si ritrova in balìa di familiari senza cuore, la solitudine di chi deve vivere da estraneo in luoghi non suoi, la solitudine in cui pian piano ti isola la morte che arriva, la solitudine del potere…

Ecco, il tema della solitudine del potere, quello del primo libro di Márquez che lessi, mi ha sempre fatto molto riflettere, durante tutti i decenni trascorsi. Quando si sale “a vette irrespirabili /perenni senza fiori”, come scrive il Ricardo Reis di Fernando Pessoa, ci si ritrova necessariamente soli. È il prezzo che si deve pagare per arrivare fin lassù, almeno secondo una certa visione del mondo, che mi sento di definire un po’ calvinista, puritana: lo ha pagato Elisabetta I per diventare regina d’Inghilterra; lo ha pagato, nella telenovela brasiliana Meu bem, meu mal che vidi a Lisbona nel 1992, Isadora Venturini per diventare presidentessa della società Venturini Designers…

Per tanto tempo ho avuto anch’io la stesso convincimento, probabilmente inculcatomi con l’educazione ricevuta, ma ora, doppiata da un po’ la boa dei cinquant’anni, la mia esperienza mi ha portato a un’idea diversa – forse perché anche la società che ci circonda, e i suoi valori, mi appaiono profondamente mutati. Ora, più che la solitudine del potere, mi è perfettamente nitida la solitudine di chi il potere non ce l’ha, di chi, per scelta etica o per carattere, ha preferito salvare la propria dignità, i propri valori di rispetto verso gli altri (“tratta gli altri come vorresti essere trattato se fossi al loro posto”), e non ha dunque raggiunto o mantenuto quelle posizioni di prestigio, quei ruoli “vincenti” che oggi sono le basi più idonee per ottenere non solo deferenza, ma anche stima, affetto, oserei dire persino amore.

Mi viene in mente la figura un po’ malinconica, e a me assai cara, di Ferruccio Parri, perennemente minoritario in un’Italia che non accenna a volersi correggere neppure oggi, al quale non fu mai perdonata la propria integrità morale, e che fu sostanzialmente solo per tutta la vita. “Forse non basta vivere pulitamente, per i miei nemici sarei dovuto morire. Ma non è colpa mia se sono ancora qui”, ebbe a commentare una volta con amarezza. Insomma, la solitudine non più come prezzo del potere, ma come prezzo della dignità. Un prezzo elevato, assai doloroso, certo, ma comunque inferiore alla perdita della dignità stessa. Naturalmente, per chi la dignità ce l’ha e sa cosa sia. Un numero di persone non grandissimo, diciamolo pure… Purtroppo.

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