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Gabriele D’Annunzio, Acquazzone di marzo a Pisa

Da Paolorossi

Pisa - Piazza dei Miracoli

Pisa – Piazza dei Miracoli

Mi ricordo di un acquazzone di marzo a Pisa. Eravamo su la Piazza del Duomo. Ci rifugiammo sotto l’architrave della porta maggiore, scrollando le gocciole. Là c’indugiammo ad aspettare che spiovesse. Imbres effugio, diceva nella porta l’emblema parlante. La pioggia annaffiava l’erba corta, con un crepitio eguale che ci pareva intimo come il romore della conchiglia accostata all’orecchio. Premuti contro il bronzo dei battenti, incominciammo a possederlo, a mescolarci con esso. L’umidità pareva accrescere il pregio della materia. Come fanciulli curiosi, mettevamo le dita nel fogliame di metallo, palpavamo le piccole teste inghirlandate che s’affacciavano di tra le olive e la fronda. Sopra di noi parlavano i simboli: Fons signatus, Hortus conclusus.

Attoniti, tra il fogliame andavamo scoprendo le lucertole le lumache le rane gli uccelli i frutti, senza numero. Avevamo nelle dita il piacere dell’artista che aveva modellate le forme, la sua sapienza, il suo capriccio. Quanto più miravamo il bronzo, tanto più la sua patina diveniva ricca, possente, profonda. S’arricchiva dei nostri occhi affettuosi, e ci rendeva amore per amore. Sopra di noi parlavano i simboli: Onustior humilior, Tantummodo fulcimentum.

Il croscio andava sminuendo. Ci pareva giungesse fino a noi e in noi si spegnesse come l’armonia che fa l’eco interna del Battistero. Il prato deserto aveva non so che derelitta dolcezza, lungh’esse le mura della vecchia città di parte. Il Camposanto dell’arcivescovo Ubaldo era chiuso e raccolto intorno alle sue cinquantatre stive di terra del Calvario.

Allora scendemmo dalla soglia liscia. Abbandonammo il bronzo e il marmo per l’erba. Imbruniva. Eravamo soli. E la vita ci conduceva per la mano indulgentemente.  Si diceva che dalle gore e dai canali, di là dal Camposanto si levasse verso sera una febbre tacita e venisse a vagare pel prato pio. Ma non sentimmo se non il brivido della primavera molliccia. Camminavamo tra il muro del Camposanto e il fianco del Duomo, dov’era uno spazio mistico per la nostra musica. Alla nostra fantasia gli affreschi interni traspiravano di fuori.

E la nostra musica aveva la faccia di quella donna vestita che si china con la gota sopra il suo salterio. Ero vigile, e attento alla mia voglia. Ero quel che sono quando la mia natura e la mia cultura, la mia sensualità e la mia intelligenza cessano di lottare e si conciliano compiutamente. Ero un mistero musicale, con in bocca il sapore del mondo.

Quando mi soffermavo, la mia compagna, che per me aveva nome Ghisola, mi chiedeva: “Che cerchi?”.

Imbruniva. L’ombra del marmo era cerulea. E’ quello un marmo che a vespro fa il turchino come i lapislazzuli. Inazzurrava l’erba, quasi come una pennellata d’oltremare. Il silenzio si apriva dinanzi a noi, si partiva a destra e a sinistra fluendo lungo i nostri fianchi come il fiume leviga il nuotatore. Il nostro sentimento era semplice e ineffabile. Eravamo poveri e leggeri, eravamo ricchi e leggeri. Eravamo come due mendicanti senza bisaccia e come due regnanti senza diadema.

“Che cerchi?”, mi domandava la Ghisolabella, a intervalli, come in una cadenza.

Ero un cercatore magico di tesori o di sorgenti? Avevo in me tutte le mie sorgenti e tutti i miei tesori. Cercavo la mia voglia. Ed ecco che avevo trovato!

Mi soffermai socchiudendo gli occhi per contenere sotto le palpebre la mia felicità. Più non ero se non un solo senso. Tutto il mio cervello palpitava con le mie nari sagaci.

Mi curvai nell’ombra umida, frugai destramente con le dita l’erba umida. Anche la mia faccia china si sentiva tinta d’oltremare; anche le mie mani si facevano azzurricce.

“Ma che cerchi? Che cerchi?”

Avevo scoperto un ciuffo di violette.

( Gabriele D’Annunzio, Notturno, 1918 )

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