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Gabriele D’Annunzio, Volterra

Da Paolorossi

E imaginava con ansia la sua prima notte nella villa volterrana piena d'insonnio in ascolto.
- Volterra!
Dietro una calva collina di marna gessosa, su la sommità del monte come su l'orlo d'un girone dantesco, all'improvviso era apparso il lungo lineamento murato e turrito. Entrambi vi s'affisarono, rallentando la corsa. La macchina rombò, ansò. Tre cavalli neri, impastoiati, con lunghe code, con lunghe chiome, saltabellavano su per un pascolo di sterpi, rilucendo nel sole, mentre il galestro si sfaldava sotto gli zoccoli. E la città disparve.
Vana era salita sul ripiano del castello, dietro il leccione, e dal parapetto guardava verso la valle, spiava la via terribile? Ora Isabella ne creava in sé l'imagine viva, e si rappresentava il tristo luogo della vedetta: quel prato solitario su cui s'allunga l'ombra del mastio che emerge dalla cintola in su dominando il cammino di ronda fra i due torrioni angolari, e l'albero degli Inghirami che di quivi appare senza tronco, simile a una cupola posata su l'erba, vasta come quella del battistero a riscontro emergente di là dal tetto del palagio, di là dalle banderuole di ferro che in perpetuo stridono portando l'aquila su la ruota; e sotto il parapetto la perpetua tempesta degli elci abbarbicati nell'erta, l'incessante mugghio che affatica la fronda bruna.

Non era forse là in quell'ora, china a scoprire una nube di polvere, la stretta faccia olivigna? Non era là sotto il sole, con tutta la sua vita d'odio e d'amore protesa verso la via bianca, la piccola sorella indomabile?

[...] Una greggia era ammassata sul cocuzzolo d'un poggio nudo, appesa tristamente come a una mammella arida, smorticcia come il mattaione ove qua e là lustravano gli ammassi di testacei e le lamine di talco. Su una pendice del monte di Caporciano, arrossato dai filoni di gabbro che serrano la vena del rame, Montecatini di Val di Cècina mostrò il torrione quadrangolare dei Belforti. Un astore cinerino come le crete roteò nell'aria incandescente. L'esecrazione d'Isaìa divorò la terra etrusca. Tutto nel crudele riverbero delle biancane moriva. Dagli squarci dalle crepe dalle rosure dalle frane dai botri dall'immoto travaglio della sterilità esalava la doglia non mitigabile. E la lamentazione del vento cominciò, d'altura in altura, ad elevarsi.
- Vedi? vedi dove ho relegato mia sorella, mio fratello, la mia tenera Lunella? Come hanno vissuto? che leggerò nei loro occhi? Imagini tu quel che questa terra può fare d'un'anima? Guarda le Balze!

Su dal riverbero di tanta cenere rovente sorgeva il monte lunato con le corna volte a Borea, scosceso di dirupi, irto di ronchioni e di schegge, levando contro il torrido biancore del cielo una città di ferro rugginoso escita dall'istessa fucina ond'escì quella a cui Flegiàs tragittò l'Etrusco pellegrino e il duca suo.

[...] Ora la terra era tutta occupata da tumuli in forma di quelli ch'ella aveva intraveduti nella selva pisana, simili ai monimenti del castigo "più e men caldi". Sul culmine d'un poggio cretoso tre cipressi eran fitti come i tre patiboli sul Calvario. Il vento era come l'agitazione sonora d'un immenso vampo.
- Ah! voglio tornare indietro!
Il pànico le afferrava la vita, su quell'erta spaventosa, e la rivoltava. Un terrore cieco e subitaneo la faceva più bianca delle biancane sterili. Ed ella voleva dire:
"Contro un muro scialbo le pazze sono sedute a cucire i ferzi delle lenzuola; e intorno gracidano le oche. I dottori hanno lunghi camici, e l'aria indifferente... Bisogna passare di là. Prima di giungere sul sagrato di San Girolamo si vede la Casa, di là dalla rete di ferro. Invece del cancello, c'è un telaio di legno, dipinto di rosso, con la rete di ferro, come davanti a un pollaio. Ah, tutto m'è presente! Poi s'entra fra due muri, e di là dal muro si rivede la Casa, si rivede il tetto... E poi San Girolamo, la loggia, il convento, la mia cappella, la cappella degli Inghirami, quella del mio sposalizio. Le mie mani sono nella tavola di Benvenuto, lunghe, con un piccolo libro rosso. Ma Santa Caterina non è quella che somiglia alla malinconia di Vana, no: ha il manto rosso, e la ruota del martirio le è caduta ai piedi... Fabbricano, fabbricano sempre, essi stessi; perché non c'è più posto. Il numero cresce ogni anno. Essi stessi portano la calcina, portano le pietre. S'intravede un muro fresco che s'alza. C'è l'odore di quella cosa nell'aria. Qualche volta s'incontra per un sentiere, tra gli ulivi, uno che si ferma a guardarti e ride, ride, sotto un povero berretto bianco, con un'aria, dolce... E il giardino dei gelsomini è là, sul poggio di sotto, nascosto dietro i cipressi, dietro i lecci. È chiuso, è tutto murato, con una porta stretta..."
Imagini le balenavano incoerenti sul sangue congesto; ma parevano scoppiare come bolle all'altezza del cervello, prima di formarsi nella parola.
- Voglio tornare indietro.
- Vuoi? - disse il compagno, strozzato dall'ambascia, con la mano su l'impugnatura della leva, senza riflettere, tanto la voce della donna lo aveva toccato a dentro.
- Voglio tornare indietro. Arresta!
Egli frenò inconsideratamente su l'erta troppo ripida, e sentì che le ruote arrestate cominciavano a retrocedere. L'aria non più rotta divenne un'afa soffocante; l'alito di mille fornaci s'addensò nel riverbero. Con una manovra energica egli contrastò il pericolo. La macchina possente riassaltò l'erta, con un fragore di collera, con l'acredine di tutti i suoi gas aperti, in un nèmbo di fetore e di polvere.
- È impossibile arrestarsi qui, impossibile voltare - disse egli affrontando la tortuosità repente. - Bisogna andare avanti.
- Sì, andiamo, andiamo. Che terrore m'ha presa? Sono stata vile. Andiamo. È destino.
Intorno era un mare di fango inaridito, giallastro, qua e là trasfigurato dalla luce in onde di velluto lionato, in ombre d'un azzurro acqueo, così misteriose che somigliavano gli inganni della Fata Morgana.
- Vedi la cortina della rocca? vedi l'ultimo tornone a ponente? Vedi, accanto, una macchia nera di lecci su la scarpata? Quelli sono i miei lecci, sotto lo spiazzo del castello. Dal parapetto, in alto, si scopre tutta la distesa fino al mare e la strada con tutte le sue svolte. Son certa che Vana è là, e spia. Ti trema il cuore? Tutto arde, e sono certa che nessuna cosa arde come lei.
Pensa! Fra poco la prenderò fra le mie braccia. Smilzi cipressi intristiti, pagliai nerastri, fornaci di laterizii, tumuli di mattoni crudi, mucchi di fascine secche, miseri olivi contorti accompagnavano il cammino. Tutto pareva prossimo a incendiarsi nel vento come una stoppia di maremma, a divampare in un attimo, a consumarsi in un attimo, a disperdersi per la desolazione, fuoco nel fuoco, cenere su la cenere.

( Gabriele D'Annunzio, Forse che si forse che no )

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