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Gabriele Gabbia - Tre poesie

Da Ellisse

Tre testi di Gabriele Gabbia, ci cui avevo parlato a proposito del suo primo libro, "La terra franata dei nomi" (v. QUI). Il primo è del tutto inedito, il secondo si è piazzato al concorso Poeti e Scrittori in Lombardia – 50&Più per la Cultura, nel mese di gennaio 2014, mentre il terzo, qui lievemente rivisto, s’è aggiudicata la XXVII edizione del Premio Nazionale di Poesia Lorenzo Montano. Scrivevo allora: "La prima impressione che intanto ne  derivo è come di uno scaldarsi i muscoli, di sperimentare lo strumento parola, con qualche spinta a tentarne i lati oscuri o criptici o "nuovi" (ma la parola - sempre - non è mai "nuova", ci è stata consegnata, è semmai rinnovabile). E continuavo: "In questo Gabbia non sarebbe diverso da tanti altri giovani che ritengono che la formazione dello stile passi attraverso la ricerca - anche a costo della rottura di certi nessi "sociali" - di una originalità prima di tutto linguistica. Ma intanto da questa prima sezione traspare l'idea. Cos'è "la terra franata dei nomi"? Da quello che si percepisce, un concetto più nihlista di quello di Bernard de Cluny (stat rosa pristina nomine...): il legame tra le cose e la loro identità di nomi è spezzato per il poeta fin dalla nascita (fin dall' "impasto ventrale") che appare segnata - nota Germani nella prefazione - "dalla contraddizione e forse da una terribile casualità", i nomi che stringiamo tra le dita non hanno più nulla di "pristino", la terra di mezzo in cui dimoravano felici non esiste più. Ne consegue che "Dove non c'è dove / ogni cosa / è radice d'abisso". Ne consegue anche, direi, che si perde la funzione storica dei nomi, il loro valore memoriale. Tra nomi e cose (ecco che alfin si palesa) c'è quindi il nulla". Questo nulla, esistenziale o filosofico che fosse ma citatissimo nei testi, risultava poi, specie nell'inoltrarsi del libro  "quando il linguaggio si è fatto meno pitico", essere popolato da "frammenti, lacerti, lembi, brani", segno che l'esplorazione del nulla, infine, rinveniva qualcosa di poeticamente consistente a cui la parola riusciva a riagganciarsi, riscoprendo nei nomi una funzione salvifica, almeno nei confronti di ciò che è stato vissuto. (per il resto rimando a quel post). In questi tre testi, forse non sufficienti per capire una svolta, ci sono dei sicuri motivi di interesse e forse una maturazione, pur nell'ambito di quella visione di un nulla che avvolge il tutto. Ancora presenti molte isotopie che quel nulla richiamano: le non poche negazioni, parole come "vuoto", "nessuna", "arresto", "nulla", "incompiuto", sintagmi come "tutto non è più". Ma il riavvicinamento alla realtà, intrapreso nella seconda parte de "La terra franata", è deciso, seppure essa sia una realtà dolorosa, forse pessimistica o disperata, in cui i vivi e i morti, uniti come vedremo da un comun denominatore, prendono corpo proprio dal linguaggio, e l' esperienza soggettiva dell'uomo emerge. Ne L'arresto le parole rimbalzano, anche grazie agli enjambements, come dentro una fuga prospettica o un imbuto che precipita e strozza il suo contenuto. Si descrive un distacco come un'oscillazione di un pendolo o di un orologio che solo  nel suo moto, fino a quando non giunge al termine della sua energia di spinta, ha il suo essere. In quel momento zero non ci sono più parole da dire (fatto evidenziato con la marcatura "nessuna"), non resta che prenderne atto, convergere sull'evidenza di questo vuoto. Affiora nella chiusa, mutuata da De Angelis, una nota emozionale che umanizza l'asciuttezza del testo, sottolineata anche qui dall' accento (il corsivo) posto su "tu" che vibra come un singulto: in questo rapporto spezzato, solo tu sei libera, io rimango con i mei rimpianti, rimango forse prigioniero di un sentimento, di una sopraggiunta solitudine. In Essi, un bel titolo inquietante, quasi jamesiano, che marca una significativa diffidente distanza, si parla invece dei morti. In questo testo, a me pare, non c'è niente di apotropaico, si parla dell'infinito popolo dei morti, perduto in una eternità "aggressiva" (dice l'autore) che non vale esorcizzare ma che deve essere meditata come percezione, per contrappunti e contrasti di luce, di un nulla per così dire più ontologico. Se la luce, forse del pensiero, gettata sui morti fa risaltare solo un nulla che, incandescente, ricade come un terribile fall-out nucleare su cose e case spopolate "ove tutto non è più", invece su quell'eternità chi vive (o chi vive nella memoria) per contrasto risalta. Ma la luce (certo intesa come simbolo) questo contrasto totalizzante in cui l'autore appare come l'unico essere, ha una doppia via. Di ritorno illumina e sostanzia di "figure" (ricordi, volti, affetti forse) "in cui [invece] il tutto è stato". Il confine tra vivi e morti (e arriviamo al finale) sta qui dove Gabbia usa una parola importante: "La lacerazione del / percepito – sì –: /l’incompiuto". Un finale solido, inoppugnabile. Se, come afferma Merleau-Ponty, la percezione è la realtà attiva e morale della coscienza di sé dell'altro e del tempo, la morte è questo strappo definitivo che nega ogni parola, che lascia incompiuto il non detto e il dicibile, il non fatto e il fattibile, il non amato. In  Mancata figura il discorso sulla morte viene focalizzato. Il testo, diviso in tre stanze, ruota, mi par di capire, intorno alla figura della (o di una) madre. Nella prima parte c'è la rivelazione del lutto, la percezione di un vuoto, di una nullificazione però questa volta è diversa, perchè tardiva e perciò bruciante come un rimorso. E' questo bruciare che rimbalza indietro, fenomeno psicologicamente noto, una sorta di astio. E' la strofa della cognizione del dolore. L'elaborazione, o l'esorcismo, inizia nella seconda, aperta con tre versi singolari che rimandano alla arcinota (e spesso fraintesa) proposizione n. 7 del Tractatus di Wittgenstein, e la riscrivono in chiave di cordoglio. Riprendendo la chiusa di cui abbiamo parlato poco sopra, subentra, io credo, una rassegnazione al fatto che tutte le parole sono state spese, che ogni comunicazione è interrotta per sempre. Rimane, ed è importante, una serie - anche qui - di percezioni contrassegnate da parole che appartengono al campo astratto (afflato, tormento, soprassalto) e che connotano ciò che ancora si può, girovagando attorno alla perdita. E producendo, passaggio dopo passaggio, come una stampa a contatto dei ricordi, un "calco" (che è anche, ricordiamo, maschera funeraria), un'adesione che sia di potenza evocativa (una speranza credo) interminabile. L'ultima strofa, infine, descrive un equilibrio, forse precario, postumo e conseguenza dell'elaborazione, il perturbante insito in questo ripensamento del lutto, nel tentativo di ancoraggio all'esistente di una materia che invece sappiamo labile. In altre parole, se i ricordi legati alla morte sbiadiscono rimane solo la morte: l'abisso da cui il poeta è attratto e su cui pencola pericolosamente (attratto, rattratto, eccede, aggetta), forse infine trovando un centro d'equilibrio, librandosi (o forse liberandosi) in contemplazione "alla luce dell'ombra". E a questo proposito mi piace ricordare  Antonio Porta: "Lo so da sempre che devi scomparire / ma nel tuo buco d'ombra io non ti seguo" (Poemetto con la madre, 3, in Yellow). Del resto dice ancora Porta (ivi, 2): "Ora mi chiedo se è l'ombra che ti cancella". Insomma, come mi pare di aver chiarito, in questi testi le parole perdono la loro "vertigine" astratta per assumere il ruolo di pilastri, e il vuoto - ecco il comun denominatore a cui accennavo - il vuoto assume finalmente la realtà dell'assenza, ha in altre parole un senso esistenziale, la mancanza di chi se ne è andato, di chi è scomparso, di coloro con cui non è più possibile compiere l' incompiuto. (g.c.)

L’ARRESTO

     a S.

Due sguardi conniventi

– convergenti –, sul

vuoto accumulato,

e nessuna parola più

da pronunciare; solo

un rintocco languido,

lento, fino all'arresto: «Tu

sei libera».

NOTA DELL’AUTORE

«Tu sei libera» è un verso ‘carpito’ dalla poesia Adesso, di Milo De Angelis – edita nella silloge Somiglianze (Guanda, 1976) –, qui misuratamente rivisto ed inserito nella chiusa del testo in questione; il lacerto originale era il seguente: «Tu sei libera!».

ESSI –

L’eternità aggressiva

dei morti in cui sfolgori.

La luce su di essi, a

illuminare il nulla

incandescente posantesi

sulle cose – sulle case

ove tutto non è più.  

Le figure da sempre

verso questi occhi

in cui tutto è stato.

La lacerazione del

percepito – sì –:

l’incompiuto.

MANCATA FIGURA

     Ambedue poi – e la presenza e l’assenza – sono cause motrici.

   Aristotele


I.

Si manifesta tardiva

l’absence, rispetto alla

madre – présent – che

ne attesta l’arsura; «La

resa la incanaglisce».

II.

Di quel che non è

potuto essere

non può dire; può

dire dell’afflato

– del tormento –

del soprassalto

angusto l’andirivieni:

l’eloquenza indòmita

d’un calco.

III.

Dal suo tentativo, l’equilibrio

non perde l’abisso

cui è attratto; rattratto

eccede – aggetta, si muove

alla luce dell’ombra, ove

precipuamente si centra – librato –.

NOTA DELL’AUTORE

«La resa la incanaglisce» è un lacerto ‘ghermito’ dal pamphlet Manuale di sopravvivenza (Dedalo, Bari, 1974), di Giorgio Cesarano, qui lievemente rielaborato ed inserito nella prima parte del componimento presentato; il frammento originale era il seguente: «La resa lo incanaglisce?».



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