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Gabriele Marchetti: l’estate è d’oro…

Da Narcyso

Gabriele Marchetti, IL PAESE, Nuova Provincia 2014

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Il postmodernismo è la dichiarazione della dignità di tutti gli stili. È una rivoluzione la cui portata, nel bene e nel male, forse non è stata ben compresa, per lo meno nelle sue conseguenze. Esso dichiara il museo, l’archivazione di tutte le esperienze, consultabili e riproponibili con varianti, senza che si riconosca al “nuovo” ibrido forza propulsiva, o potere di rappresentazione della realtà.
È, in fondo, la nostra “arte”, riconoscibile, ormai, solo per schemi, classificabile e archiviabile senza alcuna conseguenza sulla realtà dell’anima, e questo gesto è il lato superficiale della modernità.

***

Così Gabriele Marchetti in questo libro, sceglie uno stile che vuole opporsi al minimalismo, la negazione di tutti gli stili – “la lingua si è un poco innalzata, con la speranza che non sia diventata noiosa o peggio ancora illegibile”, mi scrive in una lettera -.
Non si tratta, dunque, di una visione “antimoderna”, come dichiara Matteo Veronesi nella postfazione, ma di una scelta perfettamente autorizzata proprio dalla “democrazia” superficiale del moderno, così potente da azzerare ogni intenzione di polemos.
A suo modo, dunque, Marchetti fa polemica, retrocedendo consapevolmente a una posizione “decisamente inattuale, perché lirica, simbolica, musicale, memore di una tradizione interiorizzata, fatta propria e intimamente riplasmata, fino a divenire una seconda, rinnovata natura”, (Matteo Veronesi nella postfazione).
Stranamente questo pascolismo dichiarato e rigorosamente praticato, finisce per sottolineare assai bene il mondo di Marchetti. È un mondo a parte, periferico, rurale e naturale, drammatico e a volte primitivo, sicuramente inquieto, in cui aleggia perennemente il fantasma di un’assente, ricostruibile per vocazione piuttosto che per memoria, per riproposizione allucinata, nel presente, di scene già avvenute che sempre si ripetono.
Una propensione, dunque, al microcosmo “smisurato”, visibile nel passaggio delle stagioni, col corredo di un vocabolario d’altri tempi, a volte ingenuo, sempre sincero, del resto l’unico rimasto per descrivere le onomatopee e gli umori di un mondo che si ritrae, per nostra ignoranza, dentro i suoi antichi misteri.
Sebastiano Aglieco

***

L’attimo

I rami incrociano sulle radure,
gli uccelli neri segnano l’autunno
con le loro impossibili figure.

Aspetto l’attimo che questa vita
si smagrisce nel silenzio distante
che la fa quasi sembrare infinita.

***

Il lamento del legno trafitto

Quando il lamento del legno trafitto
dal cuneo di ferro allontana l’eco
a morire sul fiume,
dal grigiore filtra un sole di sbieco.

Sai, è l’inverno che incide le facce
e scheletriche mani ai grandi faggi
col suo gelo feroce,
che li avvolge di argentei bendaggi.

Ma i bambini, che annusano per sbaglio
la fine delle cose, fanno a gara
a lanciare lontano
la pelle di un coniglio, bianca e nera.

***

Di te rimane il nome che chiamo,
tra stelle più grandi dell’inverno
che evapora, che nevica sul piano -
riflesse dall’acqua nera, fonda,
come occhi che piangono lontano,
dita bianche che cercano aiuto
ma non trovano nessuna mano.

***

Nel giardino

L’orizzonte triste della primavera
di là dal cancello chiuso, tra le statue
su cui si disegna una lebbra dorata
che inganna gli uccelli -

il nero dei pini dove si nasconde
assieme al suo cane una triste bambina,
e resta in disparte se nel sole passa
lento un funerale -

docile restare nel vento di maggio
nel paesaggio stinto, che sfuma distante,
pallida e malata si muove la mano
come a salutare.

***

L’estate d’oro

Il sole del pomeriggio ritaglia
l’ombra ai prati scendendo all’improvviso -
il grano ci sfiora, verde muraglia,
come dopo la tristezza un sorriso -
è ricordo di altri anni che ci abbaglia.

Come nei racconti che ascoltavamo
da bambini, e ci stringevamo insieme,
l’estate è d’oro e il buio senza fine.


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